Dalla Mesopotamia alla Grecia, fin nel cuore della Bibbia: venture e sventure nella creazione dell’uomo

Di chi è dunque la colpa?
Ricapitolando quanto detto finora dai precedenti post:
1- Dalla terra, l’uomo
2- In Mesopotamia: «quando gli dèi erano uomini»
3- In Grecia: antropogonie in competizione Promētheús, il demiurgo
4- Weʾe e Promētheús: intelligenze a confronto
5- Figli di un dio ubriaco
6- La prima donna: la caduta dell’uomo
7- Dall’Egitto: uomini come vasi
8- Presso gli Ebrei: Ādām e Ḥawwāh
9- L’uomo di creta: il gōlẹm
10- Femmine, inganni e serpenti

Il mito mesopotamico e quello ebraico mostrano una grande differenza nelle finalità teleologiche. L’uomo mesopotamico era un giocattolo che gli dèi avevano creato per la loro comodità. L’uomo esisteva perché aveva il compito di lavorare e di servire gli dèi con la sua fatica. Se di «caduta» si può parlare, questa era già inerente nella natura stessa dell’uomo, che gli dèi avevano portato all’esistenza come loro schiavo, per sempre. Non vi era, nella mitologia mesopotamica, l’idea di una redenzione. Le cose stavano così: punto e basta. Il mito ebraico, che da quello mesopotamico riprende le modalità tecniche della creazione (il primo prototipo umano creato dall’argilla), è lontanissimo da quella concezione utilitaristica. Qui l’uomo viene creato da Dio a sua «immagine e somiglianza», per nessun’altra ragione che non l’amore stesso di Dio per la creazione. Laddove la speculazione ebraica vedeva, nella presenza del male del mondo, il risultato del cattivo uso del libero arbitrio da parte dell’uomo e della sua naturale inclinazione a peccare, non così nel mondo mesopotamico, dove il libero arbitrio non esisteva e l’imperfezione era semplicemente connaturata nell’uomo per la volontà imperscrutabile degli dèi (l’ubriachezza di Enki). D’altra parte la mitologia mesopotamica fondava i presupposti sociali di una società stratificata in classi, di cui i teologi provvedevano a stabilire le basi ideologiche. Tuttavia l’una e l’altra mitologia, mesopotamica ed ebraica, erano concordi nell’affermare che questa statuetta di argilla che era il corpo umano, veniva tenuta in vita da un quid di natura divina. Non è un caso che, in Mesopotamia, Enki impasti l’argilla da cui dovrà venire il prototipo umano con la carne e il sangue di un dio sacrificato allo scopo. Viene infusa in tal modo nella materia inanimata quello che in accadico si chiamava eṭemmu, quell’elemento che dopo la morte non ritorna alla terra, ma continua ad esistere perpetuando la personalità e l’essenza dell’individuo. Bisogna qui aggiungere che tali «anime», nell’escatologia mesopotamica, venivano tenute in scarsa considerazione, destinate a un’esistenza larvale nel buio Arallû. È un fato platealmente ingiusto, quello che gli dèi della Mesopotamia hanno destinato alle loro creature. Una sorda disperazione, antica quanto l’uomo, i cui rintocchi arrivano a noi dal ciclo di Gilgameš…
Bisogna anche aggiungere, a onor del vero, che anche nella religione primitiva di Israele l’aldilà non presentava tratti molto diversi. Il triste Šǝʾôl era la comune destinazione di tutte le anime, buone o cattive, la cui esistenza sarebbe stata solo un pallido riflesso di quella già vissuta sulla terra. Saranno le idee filtrate dall’Īrān zoroastriano che, dall’epoca della liberazione degli Ebrei da Babilonia, porteranno in occidente la concezione consolatoria di un ritorno dei morti in ʿĒḏẹn attraverso l’immagine del giardino Paradiso. Tali idee costrinsero i sacerdoti ebrei a rielaborare profondamente le loro idee mitologiche, permettendo loro di staccarsi dalle concezioni mesopotamiche per portare la loro teologia a un impianto metafisicamente superiore. È difficile dire dove il Bǝrēʾšîṯ, così come oggi lo conosciamo, si situi lungo questo processo di rielaborazione. Il quale proseguì incessantemente per i cinquecento anni successivi alla liberazione da Babilonia, influenzando profondamente le idee che avrebbero portato al Cristianesimo. È l’elemento divino presente nell’uomo (sia esso il sangue del dio sacrificato nei miti mesopotamici, il rûaḥ in quello ebraico) a definire l’essere umano in quanto tale. Vi è un senso molto profondo della parola «vita», che diventerà tanto più evidente nella speculazione ebraica sul rapporto tra Dio e uomo e sul fatto che l’imperfezione umana, col doppio legame tra il peccato e la morte, è conseguenza della rottura che l’uomo, tempio dello Spirito, ha operato per suo stesso arbitrio col principio divino da cui è provenuto. Il Cristianesimo, che è frutto della grande rielaborazione del giudaismo operata in epoca post-esilica, intenderà «vita» e «morte» nel significato di comunione tra umano e divino, piuttosto che in senso prettamente fisico. Nella scena del sacrificio di Gesù traspare in filigrana l’antico mito mesopotamico. Il sangue di Cristo qui viene versato in riscatto dell’umanità peccatrice, che in tal modo passerà dalla morte del peccato alla vita dello spirito. L’antico Enûma ilû awîlumpuò gettare una luce inaspettata su un famoso passo dei Vangeli:

Non si tratta dello stesso mito, ma piuttosto di due distinte rielaborazioni dei medesimi simboli. La carne e il sangue del dio sacrificato, nel mito mesopotamico, sono garanzie dell’immortalità dell’uomo, il cui spirito sopravvivrà al corpo materiale salvando l’individuo dalla morte e dall’oblio. Nel messaggio cristiano, è attraverso il sacrificio dell’uomo-dio che lo spirito umano potrà sopravvivere alla morte ed accedere alla vita che è vera Vita. Il rito della comunione, l’ingestione della carne e del sangue di Cristo, che vengono a mescolarsi con la nostra argilla mortale, è atta a ricreare una consustanzialità dell’uomo con Gesù, il dio crocifisso, che in questo modo riscatta l’uomo dal peccato inerente alla natura umana, sconfiggendo la morte. Un’ultima, tarda eco del mito mesopotamico del dio sacrificato per donare all’uomo uno spirito immortale.
(Fonte: Bifrost.it)