
Carte geografiche di 11.000 anni fa?
Aeroporti preistorici? – Piste di atterraggio per gli “dei”?
La più antica città della Terra – Il punto di fusione della pietra
Quando venne il diluvio – La mitologia dei sumeri
Ossa che non sono di scimmia
Gli antichi disegnatori avevano tutti le stesse manie?
I nostri antenati ricevevano visite dal cosmo?
Vi sono parti dell’archeologia che si basano su premesse errate?
Esiste per noi un passato utopistico?
Si può riconoscere anche per lo sviluppo dell’intelligenza un ciclo eterno?
Prima di dare a queste domande una risposta basata su prove concrete, sarà opportuno stabilire in che cosa consista il nostro passato storico e su che cosa si fondi. Il nostro passato storico è costituito di conoscenze indirette: scavi, antiche iscrizioni, pitture rupestri, leggende e così via sono stati composti e coordinati in base a uno schema concettuale, che è una semplice ipotesi di lavoro. Da questo gioco di pazienza è risultato un mosaico che è certamente pregevole e interessante, ma è sorto sulla falsariga di uno schema prestabilito, in cui i vari pezzi sono stati via via inseriti e adattati, spesso con un lavoro di stucco un po’ troppo visibile. Le cose debbono essere andate così e così, proprio in questo modo, e vedi caso, con un po’ di buona volontà non è difficile farle andare come si voleva. Dubitare di ogni schema concettuale è legittimo, anzi necessario, poiché, se il discorso non si conclude su dati concreti, la ricerca è finita. Il nostro passato storico è vero dunque sole relativamente. E quando nuovi aspetti emergono, il vecchio schema concettuale per quanto familiare ci sia dev’essere sostituito con uno schema nuovo. Ebbene: pare oggi venuto il momento di porre al centro della nostra ricerca archeologica un nuova schema concettuale. Nuovi elementi emergono a giustificare questa esigenza. Non è più possibile considerare le cose di una volta con gli occhi di una volta: gl’inizi della nostra civiltà e le origini di molte religioni potrebbero essere stati diversi da quel che finora noi abbiamo creduto. Nuove conoscenze sui sistemi solari e l’Universo, su macro e microcosmo, i giganteschi progressi nella tecnica e nella medicina, nella biologia e nella geologia, l’inizio del volo spaziale:
questi fatti e altri ancora hanno trasformato completamente in meno di cinquant’anni l’immagine del mondo ai nostri occhi. Oggi sappiamo che si possono realizzare tute spaziali capaci di difenderci dall’estremo caldo e dall’estremo freddo. Oggi sappiamo che il volo spaziale non è più una fantasia di romanzieri immaginosi. Abbiamo visto realizzarsi il miracolo della televisione a colori, sappiamo misurare la velocità della luce e calcolare le conseguenze della teoria della relatività. Sappiamo noi, o almeno intuiamo, che probabilmente non siamo i soli esseri intelligenti nel cosmo? Sappiamo noi, o almeno intuiamo, che esseri intelligenti a noi sconosciuti possono aver saputo 10.000 anni fa ciò che noi oggi sappiamo? La nostra immagine del mondo, ormai irrigidita e quasi congelata in un quadro idillico, comincia a sgelarsi. Nuovi schemi concettuali esigono nuovi criteri di valutazione. Nel futuro, per esempio, l’archeologia non dovrà più essere soltanto una questione di scavi. Non basterà più raccogliere e ordinare semplicemente i reperti. Si dovrà ricorrere ad altre scienze per poter tracciare un quadro attendibile del nostro passato. Inoltriamoci dunque con mente avida di sapere e sgombra di pregiudizi nel mondo sconosciuto dell’inverosimile e cerchiamo di prender possesso dell’eredità che gli “dei” ci hanno lasciato. All’inizio del XVIII secolo furono rinvenute nel palazzo di Topkapi, a Istanbul, delle antiche carte geografiche, che erano appartenute a un ufficiale della marina turca, l’ammiraglio Piri Reis. Dallo stesso Piri Reis, che affermava di aver scoperto le sue carte in Oriente, provengono anche i due atlanti conservati alla Biblioteca Nazionale di Berlino, che contengono esatte riproduzioni del bacino del Mediterraneo e della regione del Mar Morto. L’intero gruppo di carte fu affidato al cartografo americano Arlington H. Mallery perché lo esaminasse. E Mallery fece la sconcertante scoperta che vi figuravano sì tutte le indicazioni geografiche, ma non al posto giusto. Si rivolse allora per aiuto al cartografo Walters, dell’ufficio idrografico della marina USA. Mallery e Walters tracciarono un reticolato cartografico e trasposero le antiche carte su un mappamondo moderno. Fecero così una scoperta veramente sensazionale: le carte erano assolutamente esatte, e non solo per quel che riguardava il bacino del Mediterraneo e il Mar Morto, ma anche le coste del Nordamerica e del Sudamerica, e persino i contorni dell’Antartide vi erano esattamente tracciati. Inoltre non vi figurava soltanto lo sviluppo costiero dei continenti: vi era segnata anche la topografia interna! Catene di monti, vette, isole, fiumi e altipiani erano indicati con somma precisione. Nel 1957 – l’anno geofisico – le carte di Piri Reis furono sottoposte al padre gesuita Lineham, direttore dell’osservatorio astronomico di Weston e al tempo stesso cartografo responsabile della marina americana. Anche padre Lineham, dopo attento esame, fu costretto a confermare che le carte erano di straordinaria precisione, persino in zone che ancor oggi sono scarsamente esplorate. Si pensi che solo nel 1952 furono scoperte le catene montuose dell’Antartide, che sono già segnate nelle carte di Reis! I recentissimi lavori del prof. Charles H. Hapgood e del matematico Richard W. Strachan ci hanno fornito una notizia addirittura sconvolgente: dal confronto con moderne riprese fotografiche del globo terrestre, eseguite da basi satelliti, è risultato che gli originali delle carte di Piri Reis dovettero essere delle riprese aeree da grande altezza! Come si spiega un fatto simile? Se un’astronave si libra sul Cairo e dirige il suo obiettivo fotografico verticalmente verso il basso, dopo lo sviluppo della lastra si avrà questo risultato: tutta la zona compresa in un raggio di circa 8.000 km dall’obiettivo è riprodotta con molta esattezza, perché veniva a trovarsi direttamente sotto la lente. Ma quanto più l’immagine è lontana dal centro, tanto più deformati ci appaiono paesi e continenti. E perché? In seguito alla sfericità della Terra, i continenti lontani dal centro “sprofondano in basso”. Il Sudamerica, per esempio, presenterà una caratteristica deformazione longitudinale, esattamente come avviene nella carta di Piri Reis. Si pongono a questo punto due o tre domande, a cui è necessario rispondere al più presto. Senza dubbio i nostri antenati non hanno disegnato queste carte. Tuttavia queste carte sono state certamente realizzate coi più moderni mezzi tecnici, e da ripresa aerea. Come è possibile spiegarlo? Dobbiamo accontentarci della leggenda che un dio le abbia mandate in dono a un sommo sacerdote? O dobbiamo semplicemente ignorarle, dobbiamo minimizzare il “prodigio”, perché non sappiamo come inserire quest’opera cartografica nella nostra rappresentazione del mondo? O dobbiamo coraggiosamente prendere il toro per le corna e affermare che questa immagine della nostra sfera terrestre è stata presa da un aereo da altissima quota o da un’astronave? Le carte dell’ammiraglio turco naturalmente non sono degli originali. Sono copie di copie, e ancora copie di copie. Ma insomma: chiunque le abbia eseguite, migliaia di anni or sono, doveva saper volare, e persino fotografare! Certamente un’affermazione come questa è tale da mozzare il fiato. Antichissime carte geografiche, eseguite da grande altezza: è un’idea che la mente umana non osa affrontare. Sembra talvolta che l’uomo abbia paura di veder dileguarsi bruscamente le nebbie che celano il suo passato. E perché? Forse perché è così comodo andare avanti a vivere con quello che abbiamo imparato a scuola? Non lontano dal mare, in mezzo ai contrafforti peruviani delle Ande, sorge l’antica città di Nazca. Nella valle del Palpa, lungo le due rive del fiume, si stende una striscia di pianura lunga 60 km e larga 2, disseminata di piccoli frammenti di roccia che somigliano a pezzi di ferro arrugginito. Gli abitanti la chiamano “pampa”, benché non vi sia ombra di vegetazione. Chi sorvola la pianura di Nazca vi scorge delle gigantesche linee geometricamente disposte, alcune delle quali corrono parallele, altre si incrociano o sono racchiuse in grandi superfici trapezoidali. L’archeologia ci spiega che si tratterebbe di strade degli incas… Che assurdità logica! A che cosa sarebbero servite agli incas delle strade che corrono parallele? O che si incrociano? Delle strade che attraversano una pianura e poi si interrompono d’improvviso? Naturalmente anche qui si rinvengono le tipiche terrecotte e ceramiche di Nazca. Ma sarebbe piuttosto semplicistico attribuire solo per questo alla cultura di Nazca le linee geometricamente tracciate che si scorgono nella sua pianura. Fino al 1952 in questa regione non erano stati condotti scavi sistematici. Non esiste ancora una cronologia ordinata per i reperti che sono venuti via via alla luce e solo ora si incominciano a misurare linee e figure. I risultati vengono senza alcun dubbio a suffragare l’ipotesi che le linee siano state tracciate in base a schemi astronomici. Il professor Alden Mason, specialista di antichità peruviane, ritiene infatti di, poter riconoscere in quei giganteschi tracciati i simboli di una specie di religione, forse anche un calendario. A noi quella striscia di pianura lunga 60 km in veduta aerea dà chiaramente l’idea di un aeroporto. Che ci sarebbe di tanto strano in quest’idea? Naturalmente nessun archeologo di formazione accademica ammetterà che un gruppo di astronauti abbia potuto visitare la nostra Terra. Un uomo prudente non si espone volentieri al pericolo di esser preso in giro per un’affermazione audace, anche se teoricamente ammissibile. L’”analisi” (ossia la conoscenza) è possibile solo quando la cosa che deve essere analizzata sia stata prima trovata. E una volta trovata, verrà levigata e limata finché diventerà una pietruzza che oh, meraviglia! si adatterà perfettamente al mosaico già in opera. L’archeologia classica cioè non ammette che i popoli preincaici possano aver posseduto una perfetta tecnica di misurazione geodetica. L’ipotesi che nell’antichità siano esistiti degli aeroplani sarà per essi nient’altro che una favola. Ma a che scopo servivano allora le piste di Nazca? Secondo la nostra opinione, potrebbero essere state riportate in dimensioni gigantesche su un sistema di coordinate in base a un modello, o anche tracciate sulla scorta di istruzioni ricevute da un aeroplano. Oggi non possiamo ancora dire con certezza se la pianura di Nazca sia mai stata un aeroporto. Non si troveranno certamente impalcature metalliche, poiché la maggior parte dei metalli vengono corrosi in pochi anni: la pietra non si corrode mai. Come si potrebbe giudicare assurda la supposizione che quelle “piste” siano state tracciate per indicare agli “dei”: atterrate qui! Tutto è stato preparato come “voi” avete ordinato. Anche se i primitivi ingegneri che tracciarono queste figure geometriche non avevano un’idea precisa di quello che facevano, forse sapevano almeno che cosa occorreva agli “dei” per atterrare. In molte località del Perù si osservano sulle pareti rocciose delle figure di enormi dimensioni, che senza dubbio furono create come segnali per esseri che volavano nell’aria: altrimenti a che sarebbero servite? Nella baia di Pisco, sull’alta scarpata rossiccia della costa che strapiomba a picco sul mare, è stato scolpito uno dei più strani disegni del mondo. Venendo dal mare, si riconosce già a una distanza di venti chilometri una figura alta quasi 250 metri. Se vogliamo fare il gioco delle somiglianze, dobbiamo dire che questa bizzarra scultura assomiglia a un gigantesco tridente, o a un enorme candelabro a tre bracci. E appesa al braccio centrale si è trovata una lunga fune. Che servisse già allora come pendolo? Onestamente dobbiamo ammettere che le nostre ipotesi brancolano nel buio. Nei sistemi concettuali che abbiamo a portata di mano la cosa non riesce a inserirsi in modo sensato; ma questo non significa che sia impossibile trovare un espediente per far entrare anche questo fenomeno nel grande mosaico dei metodi di ricerca consacrati. Ora, che cosa può aver spinto i popoli preincaici a costruire le fantastiche piste d’atterraggio di Nazca? Quale follia poté indurli a scolpire quella figura di 250 metri sulla rossa scarpata costiera a sud di Lima? Senza utensili e macchine moderne, un lavoro come quello richiedeva decine e decine di anni. E sarebbe stata una fatica senza senso, se non avesse avuto lo scopo di segnalare qualche cosa ad esseri che venivano da grandi altezze. E allora resta da rispondere all’eccitante domanda: perché facevano tutto questo, se non avevano almeno una lontana idea che esistessero effettivamente esseri capaci di volare? L’identificazione non può essere più compito della sola archeologia. Ma una commissione di scienziati di diversi campi potrebbe già portarci più vicini alla soluzione dell’enigma: colloqui e scambi d’opinioni potrebbero dar luogo ad associazioni chiarificatrici. Una ricerca del genere rischia di non giungere ad alcun risultato conclusivo perché questi problemi non sono mai presi sul serio e fanno troppo spesso sorridere. Astronauti nella notte dei tempi? Una domanda inammissibile per scienziati in cattedra. Sarebbe meglio mandare l’interrogante da uno psichiatra. Ma le domande esistono: e le domande grazie al cielo hanno l’impertinente abitudine di restare fastidiosamente fra i piedi finché non ottengono risposta. E le domande di tipo così caparbio sono anche molte. Che si dovrebbe dire, per esempio, se esistesse un calendario della più remota antichità in cui fossero indicati gli equinozi, le stagioni astronomiche, le posizioni della Luna in ogni ora e anche i movimenti della Luna, tenuto persino conto della rotazione terrestre? E questa non è una domanda fittizia, audacemente inventata. Questo calendario esiste: è stato rinvenuto nel fango secco di Tiahuanaco. Si tratta in verità di un rinvenimento che fa fare brutta figura: presenta degl’inconfutabili dati di fatto e dimostra può mai la nostra orgogliosa autocoscienza tollerare una simile dimostrazione? che gli esseri capaci di ideare, realizzare e adoperare quel calendario possedevano una cultura superiore alla nostra. La città di Tiahuanaco brulica di misteri. È situata a un’altezza di 4.000 metri, e per di più in una zona estremamente fuori mano. Chi mai si aspetterebbe che proprio in un luogo simile fosse sorta un’antichissima e potente cultura? Venendo da Cuzco (Perù), ci vuole un giorno intero di viaggio in ferrovia e per nave per raggiungere la città e gli scavi archeologici. L’altopiano ci appare come il paesaggio di un altro pianeta. Per chiunque non sia del luogo, ogni sforzo fisico è un tormento: la pressione atmosferica è la metà di quella che si trova al livello del mare e la percentuale di ossigeno nell’aria è ridotta in proporzione. E tuttavia su questo altopiano è sorta una gigantesca città. Su Tiahuanaco non esistono tradizioni degne di fede. Forse dovremmo rallegrarci che non si possa così giungere a soluzioni consacrate sulla scorta di cognizioni scolastiche ereditate dai nostri nonni. Su queste rovine, che hanno un’età inconcepibile e non ancora accertata, incombono le nebbie del passato, dell’ignoranza e del mistero. Blocchi di arenaria di 100 tonnellate reggono cubi in muratura del peso di 60 tonnellate. Grandi lastre di pietra levigata, che combaciano lasciando fessure sottili come capelli, si allineano in giganteschi quadroni, tenute insieme da graffe di rame: una singolarità che non si è incontrata finora in nessun altro luogo di tutta l’antichità. Tutti i lavori di taglio sono eseguiti con somma precisione: in taluni blocchi di 10 tonnellate si trovano dei fori lunghi due metri e mezzo, di cui finora non si è potuto spiegare lo scopo. Anche i lastroni di pietra lunghi cinque metri, tagliati in un sol pezzo, consumati da innumerevoli passi, non ci aiutano a risolvere i misteri che Tiahuanaco cela in sé. Strappate e travolte come giocattoli da una catastrofe di inconcepibili proporzioni, giacciono sparse sul terreno delle condutture di pietra, lunghe due metri, larghe mezzo metro e alte quasi altrettanto, di fattura così precisa e perfetta da lasciarci sbalorditi. Questi nostri progenitori di Tiahuanaco non avevano dunque niente di meglio da fare che levigare per anni e anni, senza strumenti, delle condutture di una precisione al cui confronto le nostre moderne tubazioni in cemento sono solo lavoracci raffazzonati? In un cortile oggi restaurato si trova una strana raccolta di teste scolpite in pietra, che, a osservarle da vicino, presentano un campionario delle più diverse razze: volti con labbra sottili o tumide, con nasi lunghi o arcuati, con orecchie graziose o informi, con lineamenti morbidi o angolosi. E alcune di queste teste portano strani caschi. Chi sa se queste strane ed esotiche figure celano in sé un messaggio, che noi, prigionieri dei nostri preconcetti e della nostra ostinazione, non possiamo o non vogliamo capire? Una delle grandi meraviglie archeologiche del Sud America è la monolitica Porta del Sole di Tiahuanaco: un’opera gigantesca scolpita in un sol blocco, alta tre metri e larga quattro, il cui peso è calcolato in oltre dieci tonnellate. Quarantotto figure quadrate su tre file fiancheggiano un essere che rappresenta un dio volante. Cosa racconta la leggenda sulla misteriosa città di Tiahuanaco? Racconta di una nave d’oro, scesa dalle stelle; con essa era venuta una donna, di nome Orjana, che aveva per compito di essere la progenitrice della Terra. Orjana aveva solo quattro dita, legate da membrane. La progenitrice Orjana partorì settanta figli terrestri, poi fece ritorno alle stelle. A Tiahuanaco si trovano infatti incisioni rupestri e figure di esseri con quattro dita. Impossibil determinare la loro antichità. Nessun uomo di qualsiasi epoca a noi nota ha visto Tiahuanaco altrimenti che in rovine. Quale mistero ci nasconde questa città? Quale messaggio di altri mondi attende di esser decifrato sull’altopiano boliviano? Non vi è alcuna spiegazione plausibile né dell’origine né della fine di questa cultura. Questo naturalmente non impedisce a taluni archeologi di affermare con audace sicumera che le sue rovine risalgono a 3.000 anni fa, basando questa data su due o tre ridicole figurine di argilla, che tuttavia nulla ci obbliga a considerare in rapporto con l’epoca dei monoliti. Non c’è da preoccuparsi: si incollano insieme un paio di vecchi cocci, si cercano un paio di culture nelle vicinanze, si appiccica un’etichetta sul reperto acconciamente restaurato e il gioco è fatto: tutto va a posto perfettamente nel sistema concettuale con tanta abilità difeso e garantito. Certo questo metodo è incomparabilmente più semplice che non rischiare l’ipotesi di una tecnica sbalorditiva o addirittura l’idea di astronauti nella notte dei tempi. Ciò che complicherebbe inutilmente le cose. E non dimentichiamo Sacsahuamàn. Non si tratta qui della fantastica fortezza degli incas, che sorge pochi metri sopra l’odierna Cuzco; non dei blocchi monolitici di oltre cento tonnellate; non delle muraglie alte diciotto metri e lunghe cinquecento che sostengono il terrazzamento, e davanti alle quali oggi il turista si ferma ammirato e scatta le foto ricordo. Qui si tratta della sconosciuta Sacsahuamàn, che dista un solo chilometro dalla ben nota fortezza degli incas. La nostra fantasia non è sufficiente a immaginare con quali mezzi tecnici i nostri progenitori abbiano potuto estrarre dalla cava, trasportare e lavorare lontano dal suo luogo d’origine un blocco monolitico di roccia del peso di oltre cento tonnellate. La nostra immaginazione, pur così vigorosamente addestrata dalle conquiste tecniche dei nostri giorni, subirà un vero colpo quando ci troveremo davanti a un blocco che pesa, a occhio e croce, un ventimila tonnellate. Tornando dalle fortificazioni di Sacsahuamàn, si incontra a poche centinaia di metri sul pendio del monte, in un cratere, uno spettacolo da mozzare il fiato: un unico blocco di pietra della grandezza di una casa di quattro piani. È lavorato con cura impeccabile con la miglior tecnica del mestiere: è provvisto di gradinate e rampe e adorno di fiori e spirali. Che cosa si può mai obiettarci, quando affermiamo che la lavorazione di questo inaudito blocco di pietra non può essere stata un hobby della domenica per gli incas? che deve esser servita a qualche scopo, oggi ancora incomprensibile? E perché la soluzione dell’indovinello non risulti troppo facile, l’immenso blocco si presenta capovolto, sicché i gradini scendono dal tetto, dall’alto in basso: i fiori appaiono come colpi di granata in diverse direzioni; strani incavi, non dissimili da sedili, pendono come sospesi nel vuoto. Chi può immaginarsi che mani umane e forze umane abbiano estratto dalla cava, trasportato e lavorato questo blocco? E quale forza lo ha capovolto? Quali titaniche forze erano all’opera in questo angolo della Terra? E a quale scopo? Ancora colmi di stupore per questo prodigio di pietra, troviamo, a circa 300 metri di lì, una zona di rocce vetrificate: una vetrificazione come poteva verificarsi solo in caso di fusione delle rocce ad altissime temperature. Lo stupito viaggiatore si sente ammannire sul posto la lapidaria spiegazione che la pietra sarebbe stata levigata dalle masse glaciali in movimento. Spiegazione assurda! Un ghiacciaio, come ogni massa che scorre, scenderebbe logicamente in una determinata direzione. Questa proprietà della materia non dovrebbe essersi mutata dal tempo, per quanto antico possa essere, in cui si produssero le vetrificazioni. Non si può quindi ammettere che il ghiacciaio scorresse su una superficie di circa 15.000 metri quadrati in sei diverse direzioni. Sacsahuamàn e Tiahuanaco celano una quantità di misteri preistorici, per i quali ci vengono propinate alcune spiegazioni superficiali, ma nessuna convincente. Del resto vetrificazioni del genere si trovano anche nel deserto di Gobi e nelle vicinanze di certe antiche rovine irachene. Chi potrebbe spiegare come mai queste vetrificazioni somigliano a quelle prodotte nel Nevada dalle esplosioni atomiche? Che cosa si sta facendo di decisivo per trovare una soluzione convincente a questi enigmi preistorici? A Tiahuanaco si vedono colline di aspetto innaturale, le cui sommità su una superficie di 4.000 metri quadrati sono completamente piane. È verosimile che sotto quelle superfici si celino degli edifici. Finora non sono stati effettuati scavi nella catena collinosa: nessuna vanga è ancora all’opera per aprirci la via verso la soluzione dell’enigma. Certo, il denaro scarseggia. Eppure i viaggiatori vedono non di rado soldati, ufficiali che evidentemente non hanno nulla di sensato da fare. Sarebbe una cosa assurda assegnare a una compagnia il compito di eseguire degli scavi, s’intende sotto la direzione di esperti? Nel mondo c’è denaro per tutto. Le ricerche per il nostro futuro sono urgenti. Finché il passato è ancora inesplorato, resta un posto vuoto nel calcolo del futuro. Non potrebbe il passato aiutarci a raggiungere soluzioni tecniche, che non occorre scoprire di bel nuovo, perché già sono state messe in pratica nella preistoria? Se il desiderio di scoprire il nostro passato non basta come incentivo a moderne e intense ricerche, si potrebbe forse fare un semplice calcolo di tornaconto. Finora in ogni modo nessuno scienziato ha avuto l’incarico di intraprendere ricerche sulla radioattività coi nostri modernissimi strumenti a Tiahuanaco o a Sacsahuamàn, nel deserto di Gobi o nelle leggendarie Sodoma e Gomorra. Le iscrizioni cuneiformi e le tavolette di Ur, i più antichi libri dell’umanità, ci riferiscono senza eccezione di “dei” che navigano con le loro barche nel cielo, di “dei” che sono venuti dalle stelle, che possedevano armi spaventose e che alle stelle fecero ritorno. Perché non li cerchiamo, questi antichi “dei”? La nostra radioastronomia invia segnali nel cosmo, e cerca di captare segnali emessi da intelligenze straniere. Perché non cerchiamo le tracce di queste intelligenze straniere dapprima, o contemporaneamente, sulla nostra Terra, che è tanto più vicina? In fondo non brancoliamo nel buio: le tracce esistono e sono chiarissime. I sumeri cominciarono, nel 2.300 a.C., ad annotare il glorioso passato del loro popolo. Oggi non sappiamo ancora da dove venisse questo popolo: ma sappiamo che i sumeri portavano con sé una cultura superiore, elaborata, che trasmisero ai semiti ancora in parte barbari. Sappiamo anche che cercavano sempre i loro dei sulle vette dei monti, e che – qualora nei territori dove venivano a stanziarsi non esistessero monti – costruirono nella pianura, ammassando enormi quantità di terra, dei “monti artificiali”. La loro astronomia era incredibilmente sviluppata: nei loro osservatori riuscirono a calcolare il tempo di rotazione della Luna ottenendo risultati che differiscono solo di 0,4 secondi dai calcoli attuali. Oltre al poema epico di Gilgamesh, di cui parleremo ancora in seguito, ci hanno lasciato un vero e proprio piccolo prodigio: nella collina di Qoyungiq (l’antica Ninive) è stato rinvenuto un calcolo che raggiunge il totale, in cifre nostre, di 195.955.200.000.000. Un numero di quindici cifre! I nostri veneratissimi e studiatissimi progenitori della cultura occidentale, gli antichi saggi greci, nel momento più splendido del loro sviluppo non arrivarono a coniare un “sostantivo numerale” oltre la cifra 10.000. Ciò che superava quella cifra era indicato semplicemente come “innumerevole”. Le antiche iscrizioni cuneiformi attestano nei sumeri una durata della vita che ha del fantastico. I dieci primi re avrebbero regnato per un numero complessivo di 456 mila anni, e i ventitré re che dopo il diluvio si assunsero il non facile compito della ricostruzione totalizzarono a loro volta un periodo di regno di 24.510 anni, 3 mesi e 3 giorni e mezzo. Calcoli di tempo assolutamente inconcepibili per i nostri criteri, benché i nomi dei molti sovrani, coscienziosamente eternati su piastrelle o monete, siano qui in lunga lista sotto i nostri occhi. Che cosa ci rivelerebbero questi fatti, se anche qui avessimo il coraggio di toglierci i paraocchi e guardare le vecchie cose con occhi nuovi, con occhi di oggi? Facciamo dunque l’ipotesi che astronauti stranieri visitassero mille e mille anni fa la terra dei sumeri, e ponessero le basi della civiltà e della cultura sumerica, per tornare – dopo questi aiuti ai paesi sottosviluppati – nel loro pianeta d’origine. E supponiamo ancora che la curiosità li spingesse, ogni cento anni terrestri, a tornare sui luoghi del loro lavoro di pionieri, per controllare come germogliasse il seme gettato. In base all’attuale durata media della vita, gli astronauti avrebbero potuto senza difficoltà sopravvivere a 500 anni terrestri. No? La teoria della relatività ci dice che gli astronauti, durante i viaggi di andata e ritorno su una nave spaziale che si muovesse a una velocità di poco inferiore a quella della luce, sarebbero invecchiati solo di circa 40 anni. I sumeri rimasti a terra avrebbero costruito in quei secoli torri, piramidi e case con ogni comodità, avrebbero sacrificato ai loro dei e atteso il loro ritorno. E dopo cento anni terrestri gli dei effettivamente tornarono. “E poi venne il diluvio e dopo il diluvio scese la regalità ancora una volta dal cielo…” si legge in un’iscrizione cuneiforme sumerica. Come immaginavamo, e come rappresentavano i sumeri i loro dei? La mitologia sumerica e alcune tavole e figurazioni accadiche ci danno la risposta. Gli dei sumeri non avevano forma umana e ogni simbolo che rappresentava un dio era al tempo stesso collegato con una stella. Nelle figurazioni accadiche le stelle sono rappresentate così come anche noi oggi le disegneremmo. La cosa singolare è però che queste stelle sono circondate da pianeti di varia grandezza. Come mai i sumeri, privi com’erano dei nostri sussidi tecnici per l’osservazione astronomica, sapevano che una stella fissa ha dei pianeti? Vi sono figurazioni in cui i personaggi portano una stella sul capo, in altre cavalcano sfere alate. Ve n’è una che di primo acchito dà l’impressione di un modello atomico: un cerchio di sfere allineate l’una all’altra, che irradiano alternatamente. Nessun abisso è così pauroso, nessun cielo così pieno di meraviglie come l’eredità dei Sumeri è fitta di interrogativi e di enigmi e di cose inquietanti se la si guarda con “occhi spaziali”. Eccovi qui alcune curiosità spigolate nella stessa regione geografica: A Geoy Tepe disegni, di spirali: cosa assolutamente rara 6.000 anni fa. A Gar Kobeh un’industria della selce a cui si attribuiscono 40.000 anni. A Baradostian rinvenimenti analoghi, che si calcolano vecchi di 30.000 anni. A Tepe Asiab figure, tombe e utensili di pietra datati 13.000 anni fa. Nello stesso luogo si rinvennero escrementi pietrificati, che molto probabilmente non sono di origine umana. A Karim Shahir si trovarono utensili e strumenti per tagliare la pietra. A Barda Balka amigdale di selce e utensili. Nella caverna di Shandiar furono rinvenuti alcuni scheletri di uomini adulti e di un bambino. Secondo i calcoli col C14, risalgono al 45.000 a.C. La lista si potrebbe largamente completare e continuare, e ogni fatto verrebbe a suffragare la costatazione che nella regione geografica dei sumeri viveva circa 40 mila anni fa un miscuglio di razze primitive. Improvvisamente, per ragioni finora inspiegabili, compaiono i sumeri con la loro astronomia, la loro cultura, la loro tecnica. Le deduzioni che se ne possono trarre per una antica presenza di visitatori dal cosmo sono ancora puramente speculative. Nulla vieta di pensare che gli dei fecero la loro comparsa, raccolsero intorno a sé i semiselvaggi abitanti della regione sumerica e trasmisero loro una parte delle loro conoscenze. Le figurine e le statue che oggi ci guardano dalle vetrine dei musei presentano una razza ibrida: occhi bovini, fronti sporgenti, labbra sottili e nasi per lo più lunghi e diritti. Un quadro che è ben lontano dall’adattarsi ai nostri schemi antropologici e alla nostra rappresentazione dell’uomo primitivo Visitatori dal cosmo nella notte dei tempi? Nel Libano si trovano frammenti di roccia vetrificata, le cosiddette tettiti, in cui l’americano Stair scoprì isotopi radioattivi dell’alluminio. Nell’Iraq e in Egitto si sono trovate lenti di cristallo molate che oggi si possono ottenere solo usando l’ossido di cesio, un ossido cioè che si prepara per via elettrochimica. A Heluan esiste un frammento di panno, un tessuto di tale finezza e delicatezza che oggi si potrebbe tessere solo in una fabbrica speciale con mezzi tecnici altamente specializzati. Nel museo di Badgad vi sono batterie di pile elettriche a secco, che funzionano secondo il principio galvanico. Nello stesso museo si possono ammirare pile elettriche con elettrodi di rame e un elettrolito sconosciuto. L’università di Londra possiede nella sua sezione egiziana un osso preistorico, che è stato amputato a regola d’arte dieci centimetri sopra l’articolazione del polso destro con un preciso taglio perpendicolare. Nelle regioni montuose del Kohistan (Asia anteriore) vi è un disegno rupestre che riproduce gli astri nell’esatta posizione in cui si trovavano realmente 10.000 anni fa. Venere e la Terra sono collegate da linee. Sull’altopiano del Perù sono stati rinvenuti dei monili di platino. Da una tomba di Chou-Chou (Cina) sono tornate alla luce parti di una cintura fatta di alluminio. A Delhi esiste un antico pilastro di ferro che non contiene né fosforo né zolfo e perciò non può venire intaccato dagli agenti atmosferici. Questo miscuglio di “impossibilità” dovrebbe destare la nostra curiosità – o la nostra inquietudine. Con quali mezzi, per quale intuizione esseri primitivi che vivono nelle caverne possono arrivare a disegnare gli astri nelle loro esatte posizioni? Da quale officina di precisione provengono le lenti di cristallo molate? Come si poteva fondere e modellare il platino, dal momento che questo metallo nobile comincia a fondere solo alla temperatura di 1.800 gradi? E come si è potuto ottenere l’alluminio, un metallo che si estrae dalla bauxite solo con un difficile procedimento tecnico? Domande impossibili, d’accordo: ma non dobbiamo porcele? Se non siamo disposti ad ammettere che prima della nostra cultura sia esistita una cultura ancora più alta, e prima della nostra tecnica una tecnica egualmente perfetta, non ci resta che l’ipotesi di una visita dal cosmo. Finché l’archeologia sarà trattata come è stata trattata finora, non avremo mai nessuna probabilità di apprendere se le tenebre del nostro passato siano state veramente tenebre, e non piuttosto piena luce… È urgente proclamare un anno utopistico-archeologico. In quell’anno archeologi, fisici, chimici, geologi, tecnici della metallurgia e tutti i rami che hanno attinenza con queste scienze dovrebbero occuparsi di quest’unico problema: ricevettero i nostri antenati visite dal cosmo? Per esempio un tecnico metallurgico potrà spiegare in modo rapido e conclusivo a un archeologo come sia complicato produrre l’alluminio. È forse assurdo pensare che un fisico possa di colpo riconoscere in un disegno rupestre una formula? Un chimico con i suoi strumenti altamente perfezionati potrà forse confermare la supposizione se gli obelischi siano stati ricavati dalla pietra mediante cunei di legno bagnati o con acidi sconosciuti. Il geologo ci deve dare la risposta a tutta una serie di domande su certe stratificazioni dell’età glaciale. Nella equipe di un anno utopisticoarcheologico si troverà naturalmente anche una squadra di sommozzatori, che cercheranno nel Mar Morto le tracce radioattive di una eventuale esplosione atomica su Sodoma e Gomorra. Perché le più antiche biblioteche del mondo sono biblioteche segrete? Di che si ha dunque paura? Si teme forse che la verità custodita e celata per millenni venga finalmente a galla? La ricerca e il progresso non si possono fermare. Per 4.000 anni gli egiziani considerarono i loro dei come esseri reali. Anche noi nel medioevo abbiamo ucciso con accanito fanatismo teologico le “streghe”. Se quegli uomini di talento che furono gli antichi greci credevano di poter leggere il futuro nello stomaco di un’oca, questa pratica oggi è altrettanto superata quanto la convinzione di certi nostalgici del passato, che credono ancora nel valore del nazionalismo. Ci sono mille e un errore del passato che dobbiamo correggere. La presunzione che viene a galla è fin troppo evidente, e non è in fondo che una forma di acuta caparbietà. Chi discute a tavolino, senza il contatto vivo con la realtà, è pur sempre dominato dalla fallace idea fissa che una cosa debba essere provata prima che un uomo “serio” possa, o debba, occuparsene. Per noi tutto è diventato molto più facile e molto più semplice. Una volta chi esprimeva un’idea nuova e non ancora pensata doveva aspettarsi il disprezzo e le persecuzioni della curia e dei colleghi. Ora, si pensa, dovrebbe essere più facile. Non ci sono più bolle di scomunica, non si accendono più roghi. Ma se i metodi del nostro tempo sono meno spettacolari, non sono però meno perniciosi al progresso. Si procede con meno chiasso e molto più elegantemente: basta una killerphrase, come dicono gli americani, per seppellire e paralizzare ipotesi e idee la cui audacia riesca intollerabile. Vi è tutta una gamma di possibilità:
Questo è in contraddizione coi principi fondamentali (Sempre buono)
È troppo poco classico! (Fa impressione a colpo sicuro)
È troppo radicale (Incomparabile per versare acqua sul fuoco)
Le Università non sono d’accordo (Convincente)
Lo hanno già tentato anche altri (Senza dubbio! Ma con che risultato?)
Non riusciamo a vederci un senso (E sia!)
La religione lo vieta (Che si può obiettare?)
Non è ancora dimostrato (Quod erat demonstrandum)
“Il sano buon senso deve dirci” esclamava cinquecento anni fa uno scienziato nell’aula del tribunale “che la Terra non potrebbe mai essere una sfera, altrimenti gli uomini della metà inferiore precipiterebbero nell’abisso.” “Non è scritto in nessuna parte della Bibbia” diceva un altro “che la Terra gira attorno al Sole. Per cui una simile affermazione è opera del diavolo.” Pare che l’ottusità sia stata sempre una particolare caratteristica dei tempi che precedettero il sorgere di nuovi orizzonti del pensiero umano. Ma alle soglie del XXI secolo la mente indagatrice dovrebbe essere aperta alle realtà fantastiche, dovrebbe essere bramosa di verificare leggi e conoscenze che per secoli furono accettate come dogmi, ma che nuove conoscenze hanno già messo in forse. E se una Guardia Nobile tentasse di arginare questa nuova marea spirituale, allora si dovrà in nome della verità, sotto il segno della realtà, conquistare un nuovo mondo contro tutti gli irrecuperabili che rifiutano di capire. Chi ancora decenni fa nel mondo scientifico si faceva sentire a parlar di satelliti commetteva un suicidio accademico. Oggi i satelliti artificiali ruotano intorno al Sole, hanno fotografato Marte e sono pacificamente atterrati sulla Luna e su Venere per trasmettere sulla Terra con le loro telecamere (da veri turisti) eccellenti fotografie di quegli ignoti paesaggi. Quando nella primavera del 1965 furono trasmesse alla Terra le prime foto di Marte, fu impiegata una forza di 0,000 000 000 000 000 01 Watt, ossia una potenza inconcepibilmente piccola. Ma oggi, nulla è più inconcepibile. La parola “impossibile” dovrebbe essere ormai “impossibile” per il ricercatore moderno. Chi oggi non cammina coi tempi finirà domani per essere schiacciato dalla realtà. Atteniamoci dunque tenacemente alla nostra ipotesi, secondo la quale, non sappiamo quante migliaia d’anni fa, astronauti di sconosciuti pianeti hanno visitato la Terra. Sappiamo che i nostri semplici e primitivi progenitori rimasero completamente disorientati davanti alla tecnica superiore degli astronauti: li adorarono come dei venuti dalle stelle e a quelli non restò che farsi adorare: omaggio del resto a cui anche i nostri astronauti che si accingono a visitare pianeti sconosciuti debbono spiritualmente prepararsi. In alcune regioni della nostra Terra vivono ancor oggi popoli primitivi agli occhi dei quali un mitra è un’arma del diavolo. E forse un aereo a reazione è una carrozza degli angeli e da un
apparecchio radio odono la voce di un dio… Anche questi ultimi primitivi tramandano con ingenua innocenza nelle loro saghe di generazione in generazione le impressioni delle conquiste tecniche a noi così familiari. E ancor oggi incidono sulle scarpate rocciose e sulle pareti delle caverne le figure dei loro dei e delle prodigiose navi che scendono dal cielo. In questo modo gli antichi selvaggi ci hanno conservato ciò che noi oggi cerchiamo. I disegni rupestri nel Kohistan, in Francia, nel Nord America e nella Rhodesia del sud, nel Sahara e nel Perù, e persino nel Cile vengono a suffragare la nostra ipotesi. Il ricercatore francese Henri Lothe rinvenne nei monti Tassili (Sahara) alcune centinaia (!) di pitture rupestri con parecchie migliaia di raffigurazioni animali e umane: tra queste alcune sono vestite di corte eleganti gonne e tengono in mano dei bastoni, e attaccate a tali bastoni ci sono certe indefinibili cassette rettangolari. Accanto alle figure animali compaiono esseri che indossano una specie di tuta da palombaro. Il grande dio Marte – così il Lothe battezzò la gigantesca figura – era originariamente alto sei metri; ma il “primitivo” che ce lo ha lasciato non poteva essere così primitivo come noi vorremmo, perché tutto si adattasse acconciamente al vecchio schema mentale. Evidentemente infatti il “primitivo” aveva bisogno di un’impalcatura per poter disegnare così in prospettiva, poiché in queste caverne durante gli ultimi millenni non si sono verificati spostamenti di livello. A noi sembra, senza fare uno sforzo eccessivo di fantasia, che il grande dio Marte sia stato rappresentato in una tuta spaziale o subacquea. Sulle sue poderose spalle poggia un elmo collegato al tronco da una specie di cerniera, e in corrispondenza del naso e della bocca si notano diverse fessure. Ora, saremmo disposti a credere a una curiosa coincidenza, o a uno scherzo della fantasia del preistorico “artista”, se questa figurazione fosse l’unica sulla Terra. Ma nei Tassili si trovano altre figure analoghe, egualmente massicce ed egualmente equipaggiate, e anche negli Stati Uniti (Tulare Re-gion, California) si sono rinvenute raffigurazioni rupestri assai simili. Ma anche volendo essere magnanimi, anche volendo ammettere che i primitivi fossero maldestri e per imperizia deformassero le loro figure in modo così infelice, c’è da domandarsi: come mai allora gli stessi primitivi cavernicoli sapevano altre volte raffigurare tori e normali esseri umani con perfetta somiglianza? Ci sembra più ragionevole pensare che gli “artisti” fossero capaci di rappresentare ciò che effettivamente vedevano. In un disegno rupestre di Inyu County (California) compare una figura geometrica in cui, senza un eccessivo sforzo di fantasia, si può identificare un vero e proprio regolo calcolatore, in duplice cornice. L’archeologia ritiene che si tratti di figure di divinità… Su un vaso di ceramica rinvenuto a Siyalk, nell’Iran, campeggia un animale di razza sconosciuta con gigantesche corna ritte sulla testa. Perché no? Ma le due corna presentano a destra e a sinistra cinque spirali per ciascuno. Immaginatevi due pali con grandi isolatori di porcellana e avrete un’idea di questo disegno. Che cosa ne dice l’archeologia? Semplicissimo: si tratta del simbolo di un dio. Gli dei sono molto convenienti: si. interpretano un sacco di cose – sicuramente tutto quello che non ha spiegazione – grazie alla loro imperscrutabile natura ultraterrena. Nel mondo del non dimostrabile si vive tranquilli. Ogni statuetta che si rinviene, ogni oggetto che si rimette insieme, ogni figura che si può ricostruire incollando cocci, la si attribuisce sui due piedi a qualche antica religione. E se non si riesce a inserirla neanche con la forza in una delle religioni conosciute, allora con bella disinvoltura, come un coniglio dal cappello, si tira fuori un nuovo stravagante culto arcaico. E così ancora una volta il conto torna. Ma se poi gli affreschi trovati nei Tassili o negli Stati Uniti o in Francia riproducessero effettivamente ciò che l’artista primitivo ha visto? Che si dovrebbe rispondere, se le spirali sulle corna rappresentassero davvero delle antenne, che il primitivo aveva visto sul capo degli dei stranieri? Non può esser vero ciò che non ci conviene? Un “selvaggio” che aveva la capacità di eseguire pitture parietali non poteva poi essere tanto un selvaggio. Il disegno murale della dama bianca di Brandberg (Sudafrica) potrebbe essere una pittura del XX secolo: pullover con le maniche corte, pantaloni attillati, guanti, giarrettiere e pantofole. La dama non è sola: dietro di lei è ritto un uomo magro con una verga in mano stranamente spinosa e in testa un elmo complicato, con una specie di visiera. Sarebbe accettabilissima come pittura moderna: peccato che si tratti invece di un disegno rupestre. Tutti gli dei rappresentati nei disegni rupestri della Svezia e della Norvegia presentano un carattere comune: hanno delle teste indefinibili. Teste di animali, dicono gli archeologi. Che controsenso, adorare un “dio” che al tempo stesso si macella e si cucina! Spesso si vedono navi alate e assai frequentemente compaiono vere e proprie antenne. In Val Camonica, nella provincia di Brescia, troviamo ancora una volta figure rivestite di goffe tute, le quali, cosa sommamente incresciosa, portano anch’esse corna sulla testa. Noi non arriveremo ad affermare che i cavernicoli italiani facessero la spola fra il Nordamerica e la Svezia, il Sahara e la Spagna (Ciudad Real) con intenso traffico turistico, per scambiarsi le loro esperienze e i loro progressi artistici. E quindi resta aperta l’incresciosa questione del perché i primitivi, indipendentemente l’uno dall’altro, creassero tutti figure in goffe tute con antenne sulla testa… E non varrebbe neanche la pena di parlare di queste stranezze ancora insolute, se si riscontrassero solo in un punto della superficie terrestre. Ma le ritroviamo quasi ovunque. Non appena vedremo il passato coi nostri occhi e lo riempiremo con la fantasia del nostro “secolo della tecnica”, i veli che ci nascondono i tempi più remoti cominceranno a sollevarsi. Uno studio degli antichissimi libri sacri ci aiuterà pure a trasformare le nostre ipotesi in una realtà così accettabile che la paletnologia non potrà più a lungo sottrarsi alle domande rivoluzionarie.