

La tradizione Yahwista – lo abbiamo visto – pone l’accento sul fatto che l’uomo venne creato prima, e la donna dopo (Bǝrēʾšîṯ [2: 21-24]). Se il motivo può avere qualche analogia con il mito greco della creazione di Pandṓra, separata e successiva a quella dei maschi, niente del genere si può dire riguardo alla materia prima utilizzata nell’operazione. Pandṓra viene plasmata con la terra (o dalla terra), così come Promētheús aveva operato per creare l’uomo. Invece, nel mondo ebraico, Yǝhwāh Elōhîm forma la donna a partire da una materia già lavorata: dalla costola tolta all’uomo. Mentre l’uomo viene min-hāʾăḏāmāh, «dalla terra», la donna viene min-hāʾāḏām, «dall’uomo», a indicare una dipendenza ontologica, destinata a venire inevitabilmente riflessa sul piano sociale. Ma perché proprio una costola? La parola ṣelāʿ viene citata quarantun volte nel canone biblico e ha il significato di «fianco, lato», anche in contesti non anatomici (es. ṣelāʿ ha-miškān «lato del tabernacolo»). «Costola» è, tuttavia, il significato etimologico primario del termine, derivante dalla radice ṢLʿ [צלע] «curva», affine all’accadico (assiro) ṣêlu «costola». La traduzione greca dei Settanta ricalca da vicino l’originale ebraico e usa al riguardo il termine greco pleurá, che può significare sia «costola» sia, al plurale, «fianco». Da qui, le traduzioni latine e nelle lingue moderne. L’ambiguità del testo originale, d’altronde, può sia indicare una singola costola della gabbia toracica ma anche, in generale, il fianco intero, come a significare che la donna sia la «metà» dell’uomo. Ma al di là del senso letterale, è ovvio che la tradizione Yahwista, come quella Sacerdotale, intendeva porre l’attenzione sul fatto che uomo e donna sono fatti della stessa carne (e che nel matrimonio ritorneranno ad essere «una sola carne»). In sumerico la parola uzuTI «costola» è formata da “TI” (TIL₃, TILA₃) «vita», preceduto dal determinativo UZU «carne». Il sumerogramma TI «vita» era rappresentato dall’immagine stilizzata di una freccia, in quanto «freccia» e «vita» erano omofoni, pronunciandosi ti. Risalente all’inizio del II millennio, il racconto sumerico «Enki e Ninḫursag», secondo il titolo informale datogli dagli autori moderni (il titolo originale era forse Iri kugkuggam, «Pura è la città»), mette in scena una vicenda ambientata nel paese di Dilmun, generalmente considerato un protomitema del giardino di ʿĒḏẹn. Nella seconda metà del racconto, Enki, maledetto dalla sposa Ninḫursag, giace come morto. Ma Ninḫursag lo perdona e gli partorisce otto divinità specializzate nella cura delle altrettante malattie che affliggono il dio. La settima, Ninti, viene creata per guarire il male alle costole. Il suo nome può essere letto indifferentemente come «Signora della vita» o «Signora della costola».

Nel mito ebraico, la donna riceve il suo nome nel momento in cui viene cacciata da ʿĒḏẹn: ed esso è Ḥawwāh, «vivente» (a sua volta da ḥay «vita», cfr. ḥayyût, la vitalità caratteristica di tutte le creature), nel senso di «[signora dei] viventi». La traduzione greca ne rende il nome con Zṓē «vita». Non sosteniamo alcun tipo di omologia tra Ninti ed Ḥawwāh: i due racconti sono diversissimi e un’etimologia tanto vaga non basta a individuare la benché minima associazione tra le due figure. Rimane il sospetto, tuttavia, che nel corso dell’elaborazione del canone ebraico, vi sia stato uno slittamento di significato che ha portato gli autori della Bibbia a interpretare l’ultimo atto della creazione, quello della donna, come il risultato di un’operazione eseguita su una costola. Il testo è assai preciso su tutta l’operazione: Yǝhwāh attua perfino una specie di anestesia, addormentando Āḏām prima di togliergli la costola e richiudere la carne. Persino l’etimologia delle parole iš e iššāh viene piegata nel testo per spiegare come la donna sia venuta dall’uomo. Gioco di parole che risulta agevole in latino (virago da vir) e persino nella Bibbia inglese di re James (woman da man), ma non in italiano. Si tratta forse dell’ultima interpretazione di un mito antichissimo, in cui l’uomo originario aveva in sé entrambe le potenzialità del maschio e della femmina e solo in seguito sia stato scisso nei due sessi distinti e separati? Qualcuno lo ha asserito con una certa enfasi. La cultura patriarcale degli autori della Bibbia avrebbe poi spinto verso un’interpretazione di superiorità dell’uomo rispetto alla donna, facendo intendere che l’uomo fosse stato creato prima e la donna venuta da lui. Gli studiosi hanno indicato, al riguardo, un famoso brano del Sympósion, dialogo platonico che tratta la natura e le origini dell’amore, dove Aristophánēs cita un curioso mito delle origini (se non è piuttosto un’invenzione letteraria dello stesso Plátōn, espressa nel linguaggio del mito). Ma eccolo:

Ma non divaghiamo, ché la creazione della donna comporterà, nel mito ebraico, altrettanti problemi che in quello greco. «Chi dice donna dice danno» sembra essere una costante di certi miti patriarcali, ed Āḏām ed Epimētheús si sarebbero certamente trovati d’accordo. Sembra fuor di dubbio che Yǝhwāh fosse animato dalle migliori intenzioni, quando creò una donna per Āḏām. Lo stesso non si può dire di Zeús, assai più malizioso nel recare il suo kalòs kakós in dono al malaccorto Epimētheús. Ma mentre la creazione di Pandṓra era stata messa in atto separatamente, ripetendo le modalità demiurgiche già utilizzate da Promētheús per dare vita agli uomini, nel mito biblico Ḥawwāh veniva tratta dal fianco di Āḏām. Così, mentre in Grecia la donna risultava una copia antisimmetrica dell’uomo, presso gli Ebrei era considerata la sua metà complementare. Detto questo, gli studiosi del mito hanno sempre trovato naturale confrontare Ḥawwāh e Pandṓra: due «prime donne» responsabili, ciascuna a suo modo, della caduta dell’uomo e dell’ingresso del male nel mondo. Poiché ci siamo dilungati su Pandṓra, non sarà male affrontare ora il racconto biblico. Questo è assai ben conosciuto, e lo riportiamo solo per chiarezza d’esposizione:


Il racconto biblico del frutto della conoscenza attinge a mitemi affatto diversi da quello del píthos scoperchiato da Pandṓra: non bisogna forzare i dati per indovinarvi a tutti i costi uno schema. Tuttavia Epimētheús ed Āḏām sono vittime di un inganno che ha il suo strumento proprio nella donna che è stata loro recapitata a domicilio: Zeús sa bene che Pandṓra scoperchierà quel vaso, una volta indotto l’ignaro Epimētheús a sposarla; e il serpente convince Ḥawwāh ad assaggiare il frutto dell’albero. In entrambi i casi vi è la violazione di un’ingiunzione: Promētheús aveva avvertito Epimētheús a non accettare alcun dono da Zeús; Yǝhwāh aveva proibito ad Āḏām di mangiare il fatidico frutto. Epimētheús trasgredisce per stolidità, Āḏām per debolezza. Parleremo in un’altra sede del giardino e del serpente: ora concentriamoci piuttosto sulle conseguenze del peccato. Subito dopo, avvertendo i passi di Yǝhwāh che camminava nel giardino di ʿĒḏẹn alla brezza del giorno, Āḏām e Ḥawwāh fuggono nel folto, per non lasciarsi scorgere, consapevoli della propria nudità. Yǝhwāh comprende immediatamente che la prima coppia umana ha disubbidito al suo ordine. Maledice per primo il serpente. Si rivolge poi all’uomo e alla donna e, prima di cacciarli per sempre dal giardino, così stabilisce:

Le conseguenze per il genere umano sono le medesime che avevano già trovato in Hēsíodos. L’antico poeta greco era stato chiaro a riferire i due punti dove s’incardina la caduta dell’uomo dallo stato primordiale: alimentazione e riproduzione, ovvero la necessità del lavoro e l’inevitabilità della riproduzione sessuata. Le condanne di Yǝhwāh vertono sui due medesimi elementi:
- Condanna di Āḏām → Alimentazione: lavoro, fatica e sudore della fronte;
- Condanna di Ḥawwāh → Riproduzione: concupiscenza, sessualità, gravidanza e dolori del parto.
Analogamente, alla diffusione dei mali sulla terra, dovuto all’apertura del vaso di Pandṓra, corrisponde nel mito biblico la maledizione che investe l’intera terra, la quale, da quel momento, «germoglierà spine e cardi». Inoltre, Hēsíodos riferisce che i mali liberati da Pandṓra porteranno ai mortali «affanni luttuosi», accorciando le loro vite nel dolore e nella sofferenza, laddove Yahweh è esplicito a ricordare ad Āḏām la propria mortalità: egli è destinato a «tornare alla terra». L’uomo entra nella storia e la sua vita d’ora in poi sarà una lotta quotidiana per la sopravvivenza, un cumulo di dolori e di fatiche per strappare alla terra il necessario nutrimento; l’atemporalità si chiude, l’uomo conosce la malattia, la vecchiaia e la morte, e questo richiede l’introduzione della sessualità e della riproduzione. Un confronto tra il mito ellenico e quello è ebraico è d’obbligo. La seguente tabella è essenzialmente analogica. Il punto 1 è un locus comune a molte tradizioni e non comporta necessariamente un confronto diretto; i punti dal 2 al 6 sono da considerarsi semplice analogie, quando non hanno addirittura senso opposto; in particolare, il motivo del tabù violato, al punto 5, fa parte dei più comuni meccanismi fiabeschi; il punto 7 è invece l’unica probabile omologia dell’intero schema.

(Fonte: Bifrost.it)