MESOPOTAMIA, MITI

Figli di un Dio ubriaco

Ma ora dobbiamo lasciare un attimo la Grecia per tornare in Mesopotamia. Lo schema mitico che stiamo esplorando presenta ancora molte lacune. Un dio ha permesso all’uomo di partecipare alla natura divina, ma il prezzo è stato alto: Weʾe è stato ucciso, Promētheús incatenato alle rocce del Caucaso. Ma, grazie ai loro sforzi, ai loro sacrifici, ora l’uomo detiene un’anima immortale, possiede la coscienza e l’intelligenza degli dèi. Ma tra uomo e dio è stata tirata una linea ben definita. Nonostante siano simili agli dèi in aspetto e in facoltà razionali, gli esseri umani rimangono soggetti alla malattia e alla morte. E sebbene le pratiche cultuali e sacrificali abbiano stabilito una sorta di contratto tra mortali e immortali, lo iato tra gli uni e gli altri rimane incolmabile. Il contratto tra le due specie è un contratto-capestro, a tutto vantaggio degli dèi, i quali non si faranno problemi a violarlo a loro capriccio. La vita umana, in Mesopotamia, appare totalmente inserita in un progetto originario superiore, che fa capo al mondo divino. Ogni essere umano, fin dalla nascita, si ritrova incastrato in un sistema serratissimo, regolato dalla religione, dallo status sociale, dall’ideologia; un sistema dove il destino individuale sembra stenti ad esistere come tale. Egli esiste all’unico fine di mantenere il lavoro necessario al culto divino: e attraverso la continua riattualizzazione degli antichi miti, i re e le caste sacerdotali possono mantenere lo status quo, e con esso, i loro privilegi e il loro potere. Nella sua grandiosa giustificazione del destino umano, l’Enûma ilû awîlum è forse il documento più compiuto, di più ampio respiro, giunto a noi dalla letteratura mesopotamica. Ma non è certo l’unico: il principio dell’uomo-lavoro era già presente, nella sua ideologia, nei più antichi testi sumerici. In un poema del II millennio, l’Ene nigdue pa nagamined, meglio conosciuto come «Invenzione della zappa» o «Lode alla zappa», Enlil costruisce per prima cosa l’utile strumento e, dopo averlo adornato, lo usa per raccogliere una zolla di terra, che depone nel primo stampo umano, nella «fabbrica della carne» [uzu-mu₂-a] di Duranki. L’uomo viene creato in funzione dell’attrezzo agricolo che è destinato ad essere da lui maneggiato:

Ma se l’uomo ha natura divina, perché è soggetto alla sofferenza e alla morte? Se un dio lo ha creato, perché lo ha gettato in balia del male? Una risposta interessante, e nient’affatto consolante, ci arriva da un testo sumerico risalente all’inizio del II millennio a.C., la cui ricostruzione, eseguita su una mezza dozzina di esemplari frammentari, ha messo a dura prova gli orientalisti. Termini sconosciuti e loci obscuri ne hanno reso azzardata la lettura e, in diversi, punti, le traduzioni degli specialisti divergono notevolmente. Questo testo, il cui titolo informale è «Enki e Ninmaḫ» (quello originale era forse Ud reata, «Nei giorni remoti»), oltre ai temi che già conosciamo – creazione dell’uomo al fine di sostenere il lavoro cultuale –, si interroga sull’origine e la natura del male e della sofferenza. L’incipit ci riporta, ancora una volta, ai tempi primordiali, subito dopo separazione tra il cielo e la terra. La situazione è parallela a quella dell’Enûma ilû awîlum: gli dèi sono divisi in due classi, con le divinità maggiori [digir šar₂-šar₂] che costringono le divinità minori [digir tur-tur] al lavoro: scavare canali, accumulare terra, dragare il fango; ad eseguire quelle faticose, noiose operazioni necessarie per far arrivare le vittime agli altari.

Mentre i piccoli dèi crollano sotto l’immane fatica, uno dei grandi dèi riposa nell’ozio più beato. Non è Enlil, questa volta, ma lo stesso Enki, il «saggio per eccellenza», il «creatore che ha fatto esistere tutti gli dèi». I piccoli dèi piangono e si lamentano, ma nessuno osa ribellarsi, nessuno osa entrare nella stanza dove Enki dorme. È però Namma, la madre primigenia, «colei che ha partorito tutti gli dèi», a destare Enki, con queste parole:

Enki si leva dal suo giaciglio e, dopo una lunga riflessione, si mette al lavoro. L’operazione antropogonica è risolta in pochi versi. Enki crea dapprima un SIG₇.EN.SIG₇.DUG₃, parola interpretata come «utero, matrice, ovaie». Sembra che un feto venga fatto crescere all’interno di questa specie di incubatrice, a cui Enki infonde parte della sua intelligenza… ma il testo è di difficile lettura, e gli studiosi hanno dato anche altre interpretazioni, del tutto diverse. Poi, Enki si rivolge a sua madre Namma e le dà delle istruzioni, anche qui irte di difficoltà interpretative:

L’impressione è quella di assistere a un parto, a cui attendono alcune dee. La prima di esse, colei che sembra ricoprire il ruolo di levatrice, è Ninmaḫ, la «nobile signora», anche chiamata nei testi sumerici con il nome di Ninḫursa, «signora della montagna». Si tratta probabilmente della stessa Nintu che avevamo visto all’opera nell’Enûma ilû awîlum: di certo ha un ruolo analogo. Le sette dee che assistono alla nascita del prototipo umano non sono ben conosciute, ma le ritroveremo ancora, sotto vesti inaspettate, in altre tradizioni mitologiche. In quanto a Namma, è difficile definire il suo ruolo: nella traduzione di Jean Bottéro, spetta a lei stabilire il destino della creatura che sta per nascere; in quella di Giovanni Pettinato, è proprio lei a partorire. Per correttezza, ci asteniamo dall’approfondire la questione. In una serie di versi rovinati e incomprensibili [38-43] doveva essere narrata la nascita degli uomini. Quando il testo si rende di nuovo intellegibile, gli dèi stanno celebrando la riuscita antropogonia con un banchetto in onore di Namma e Ninmaḫ. Sono stati arrostiti dei capretti e scorre birra a profusione. Tutti gli animi sono lieti, i cuori allegri. Gongola Enki, oggetto dei più ammirati complimenti da parte di tutti gli dèi. Quando d’un tratto, Ninmaḫ, che immaginiamo incupita dalla birra e dalla gelosia, esordisce con una cupa riflessione: «Poiché la natura degli uomini può essere sia buona che cattiva, io potrei assegnar loro un destino, lieto o infelice, a mio piacimento!» Ribatte Enki, anche lui piuttosto brillo: «Se così è, io in persona correggerò quel destino, buono o infelice che sia!» Raccolta dell’argilla dalle rive dell’Abzu, Ninmaḫ la modella fino a farne un uomo con le braccia deformi e anchilosate, incapace dei lavori più futili. Enki lo osserva e sorride: «Ebbene, costui entrerà al servizio del lugal, il re!» Ninmaḫ non si dà per vinta e, raccolto un altro grumo di argilla, insiste nella grottesca sfida che le è stata lanciata, e foggia un uomo senza occhi, cieco: Enki gli conferisce il dono del canto. Ninmaḫ produce allora uno storpio, dalle gambe paralizzate, incapace di camminare: Enki lo assegna ai lavori di argenteria. Per quarto, Ninmaḫ foggia un uomo incapace di trattenere l’urina o lo sperma: Enki lo guarisce con un lavacro e un appropriato esorcismo. Per quinto, Ninmaḫ plasma una donna sterile, incapace di avere figli: Enki la assegna alla «casa delle donne». Il sesto che Ninmaḫ produce, non ha né pene né vulva: Enki lo conduce dal re affinché lo usi come eunuco. «A ognuno degli esseri che tu hai prodotto, io ho assegnato un destino e dato di che guadagnarsi il pane» sogghigna Enki. «Ma ora, vediamo se tu riuscirai ad assegnare un destino a ciò che io produrrò». Enki si mette al lavoro e, sotto lo sguardo di Ninmaḫ, produce un umul, un individuo orribilmente deforme. Ninmaḫ gli rivolge la parola, ma l’umul non è in grado di rispondere; gli offre dal pane, ma l’umul non può afferrarlo. Incapace di stare in piedi, incapace di coricarsi; impossibilitato a compiere i gesti più semplici, l’umul non è né morto né vivo. La reazione di Ninmaḫ è di rabbia: una lacuna nel testo ci impedisce però di comprenderne le conseguenze. La dea ha perso la scommessa, Enki ha trionfato ancora una volta, e la tavoletta termina con una lode al dio creatore. Lode che a noi suona piuttosto cupa. I nostri Sumeri sanno essere cinici al punto giusto. Quale altra ragione, se non l’ubriachezza di un dio, può giustificare i mali che affliggono l’umanità? Se gli dèi ci hanno plasmati a loro immagine, se ci hanno conferito qualcosa della loro sostanza divina, a cosa dobbiamo i nostri limiti fisici? Perché le deformità, le malattie, la sofferenza, la vecchiaia, la morte? Una contraddizione non da poco, che i Sumeri risolvono mettendo in scena una scommessa tra due divinità ubriache. Anche il mito cinese chiama in causa una coppia primordiale di demiurghi, Fú Xī e Nǚ Wā. Quest’ultima, crea l’umanità, raccogliendo manciate di terra gialla dal letto del fiume Jiāng (lo Yáng Zǐ) e modellando bamboline fatte a sua immagine, che subito prendono vita, balzandole intorno con grida di gioia. All’inizio, Nǚ Wā modella le bambole una ad una con le sue mani. Ma dopo un po’, comincia a stancarsi: l’impresa di popolare il mondo plasmando gli uomini uno ad uno sembra superiore alle sue forze. Così infila una canna di giunco nel fango del fiume, e come la scuote, gocce di fango cadono sul terreno, rapprendendosi in forme umane approssimative e scadenti. Perciò, gli uomini modellati con la terra gialla, diverranno i progenitori dei nobili; i secondi, quelli plasmati col fango, diverranno gli individui di bassa estrazione sociale, rozzi, ignoranti e sgradevoli alla vista. Al confronto di Enki e di Nǚ Wā, Zeús non ha neppure l’attenuante dell’ubriachezza, o della noia. Anch’egli riempirà il mondo di mali e perfidie, ma agirà per astio, per vendetta, in modo sottile e subdolo.

(Fonte: Bifrost.it)

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