BIBBIA

I misteri della Bibbia

La Bibbia ha certamente ragione – Dio non era padrone del tempo?
L’Arca dell’Alleanza di Mosè era caricata elettricamente
Veicoli anfibi degli “dei” nelle sabbie del deserto
Il diluvio era stato premeditato
Perché gli “dei” chiedevano determinati metalli?

La Bibbia è fitta di misteri e contraddizioni.
La Genesi comincia con la creazione della Terra, e l’esposizione è geologicamente esatta. Ma come faceva il cronista a sapere che i minerali avevano preceduto le piante, e le piante avevano preceduto gli animali?

“Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza…” si legge nella Genesi.

Perché Dio parla al plurale? Perché dice “noi” e non “io” e usa “nostra” invece di “mia”? Un dio unico dovrebbe parlare agli uomini al singolare, e non al plurale.

“Or quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla faccia della Terra, e furon loro nate delle figlie, avvenne che i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle, e presero per mogli quelle che si scelsero fra tutte”
(Genesi, 6, 1-2).

Chi può spiegarci quali figli di Dio si presero in moglie le fanciulle della Terra? L’antico Israele aveva un solo, intangibile Iddio. Da dove vengono i “figlioli di Dio”?

“In quel tempo c’erano sulla Terra i giganti, e ci furono anche di poi, quando i figli di Dio si accostarono alle figlie degli uomini, e queste fecero loro dei figli. Essi sono uomini potenti, che fin dai tempi antichi sono stati famosi”
(Genesi, 6,4).

Ricompaiono quindi, i figli di Dio, che si mescolano agli uomini. E qui si parla anche per la prima volta di giganti. I “giganti” ricompaiono continuamente in tutti i paesi: nella mitologia dell’Oriente e dell’Occidente, nelle saghe di Tiahuanaco e nelle leggende epiche degli eschimesi. I giganti popolano quasi tutti gli antichi libri: debbono essere esistiti. Ma che razza di creature erano, questi giganti? Furono i nostri progenitori che costruirono gli edifici giganteschi, trasportando su e giù i monoliti come se niente fosse – o furono astronauti esperti di tecnica che venivano da un altro pianeta? Comunque la Bibbia parla di “giganti” e li definisce “figli di dio”, e questi “figli di dio” si mescolano e si moltiplicano con le figlie degli uomini. Nel i libro della Genesi (19,1) Mosè ci dà un’ampia e drammatica relazione della catastrofe che colpì Sodoma e Gomorra. Se associamo alla descrizione biblica le nostre moderne conoscenze, ne risulteranno deduzioni che non sarà tanto facile confutare. La sera dunque vennero due angeli a Sodoma, quando padre Lot era seduto proprio sulla porta della città. Evidentemente Lot aspettava questi “angeli”, che ben presto si mostrarono sotto l’aspetto di uomini, perché Lot li riconobbe subito e li invitò ospitalmente a passar la notte in casa sua. Ora, racconta la Bibbia, i libertini di Sodoma volevano “conoscere” quegli stranieri. Ma i due stranieri con un semplice gesto della mano riuscirono a respingere la libidine dei playboys locali; e i disturbatori furono liquidati. Ora gli “angeli” (Genesi, 19,12-14) dissero a Lot di prendere sua moglie, i suoi figli e le sue figlie e i suoi generi e le sue nuore e condurli in fretta via dalla città, perché la città, lo ammoniscono, sarebbe stata ben presto distrutta. Ma la famiglia di Lot sulle prime non prese sul serio un così strano consiglio e lo credette un cattivo scherzo del padre Lot. Sentiamo testualmente la Bibbia:

“E come l’alba cominciò ad apparire, gli angeli sollecitarono Lot, dicendo: ‘Levati, prendi tua moglie e le tue due figlie che si trovano qui, affinché tu non perisca nel castigo di questa città’. Ma egli s’indugiava; e quegli uomini presero per la mano lui, sua moglie e le sue due figlie, perché l’Eterno lo volea risparmiare: e lo menaron via, e lo misero fuori della città. “E avvenne che, quando li ebbero fatti uscire, uno di quegli uomini disse: ‘Salvati la vita! non guardare indietro e non ti fermare in alcun luogo della pianura: salvati al monte, che tu non abbia a perire!… Affrettati, scampa colà, perch’io non posso far nulla finché tu vi sia giunto’.”

Risulta chiaro da questo racconto che i due stranieri, gli “angeli”, avevano dei poteri sconosciuti agli abitanti del paese. Anche quell’imperativo urgente, quella fretta, con cui essi spinsero la famiglia di Lot ad allontanarsi, è una cosa che fa pensare. Poiché il padre Lot indugiava, lo trascinarono via prendendolo per mano. Doveva trattarsi di minuti. Secondo il loro comando, Lot deve recarsi sui monti e non voltarsi indietro: ma non pare che egli abbia un’illimitata venerazione per gli “angeli”, poiché fa continue obiezioni: “…ma io non posso salvarmi al monte prima che il disastro mi sopraggiunga ed io perisca…”. E poco dopo gli angeli ammettono che non potranno far nulla per lui se non li segue. Che avvenne veramente a Sodoma? Non possiamo immaginarci che l’Iddio onnipotente sia legato a un orario. Perché dunque questa fretta dei suoi “angeli”? O forse la distruzione della città era stata fissata al minuto da qualche sconosciuto potere? Era già cominciato il conto alla rovescia, e gli “angeli” lo sapevano? In questo caso il termine per la distruzione della città sarebbe stato improrogabile. E non v’era un modo più semplice per portare in salvo la famiglia di Lot? Perché doveva andare proprio fra i monti? E perché non doveva a tutti i costi voltarsi indietro? Domande che non si addicono a una questione seria, lo ammettiamo. Ma da quando in Giappone sono state gettate due bombe atomiche, noi sappiamo quali devastazioni abbiano arrecato e sappiamo che gli esseri viventi esposti direttamente all’azione delle radiazioni muoiono o sono colpiti da un male inguaribile. Pensiamo dunque alla possibilità che Sodoma e Gomorra siano state distrutte di proposito, in base a un piano prestabilito, da una esplosione nucleare. Forse – continuando nelle nostre congetture – gli “angeli” volevano soltanto distruggere del pericoloso materiale fissile; ma certamente intendevano sterminare una stirpe di uomini ad essi nemica. Il momento della distruzione era prestabilito, e chi era destinato a sopravvivere – come la famiglia di Lot – doveva rifugiarsi sui monti, ad alcuni chilometri dall’esplosione: le pareti di roccia assorbono naturalmente i pericolosi raggi radioattivi. E poi – chi non lo sa? – la moglie di Lot si volse e fissò gli occhi proprio nel sole atomico. Nessuno si meraviglia più che sia caduta morta all’istante. “Allora l’Eterno fece piovere dai cieli su Sodoma e Gomorra zolfo e fuoco…”

E così termina il racconto della catastrofe nella Genesi (19, 27-28):

“E Abramo si levò la mattina di buon’ora, e andò al luogo dove s’era prima fermato davanti all’Eterno: guardò verso Sodoma e Gomorra e verso tutta la regione della pianura, ed ecco vide un fumo che si levava dalla Terra, come il fumo d’una fornace.”

Noi possiamo essere credenti come i nostri padri, ma certo siamo meno ingenui. Con tutta la buona volontà, non possiamo immaginarci un dio onnipotente, onnipresente, infinitamente buono, che non conosce limiti di tempo e insieme ignora quello che deve accadere. Dio creò l’uomo, ed era contento della sua opera: ma più tardi pare che se ne sia pentito, perché lo stesso Creatore decise di distruggere l’umanità. Per noi, figli illuminati e spregiudicati del nostro tempo, è difficile immaginare un padre infinitamente buono che fra innumerevoli figli mostra di fare spiccate preferenze per i cosiddetti beniamini, come appunto la famiglia di Lot. L’Antico Testamento è ricco di scene suggestive in cui Dio da solo, o i suoi angeli, con gran fragore e sviluppo di fumo scendono direttamente dal cielo. Una delle descrizioni più originali è quella dataci dal profeta Ezechiele (1,1- 7):

“Or avvenne l’anno trentesimo, il quinto giorno del quarto mese, che essendo presso al fiume Kebar, fra quelli ch’erano stati menati in cattività, i cieli si aprirono… Io guardai, ed ecco venire dal settentrione un vento di tempesta, una grossa nuvola con un globo di fuoco che spandeva tutto all’intorno d’essa uno splendore: e nel centro di quel fuoco si vedeva come del rame sfavillante in mezzo al fuoco. Nel centro del fuoco appariva la forma di quattro esseri viventi: e questo era l’aspetto loro: avevano sembianza umana. Ognun d’essi aveva quattro facce e ognuno quattro ali. I loro piedi erano diritti e la pianta del loro piede era come la pianta del piede di un vitello; e sfavillavano come il rame terso.”

Ezechiele indica una data precisa per l’atterraggio di questo veicolo, e descrive con grande esattezza di particolari un velivolo che proviene dal nord, che brilla e splende e solleva una gigantesca nuvola di sabbia dal deserto. Pensiamo un po’ al Dio onnipotente delle religioni: avrebbe forse bisogno, questo onnipotente Iddio, di precipitarsi sulla Terra da una determinata direzione? non può forse egli, senza tanto chiasso e tanto sforzo, esser presente là dove essere desidera?

Ma continuiamo col racconto dell’esperienza di Ezechiele (1,15-19):

“Ora, com’io stavo guardando quegli esseri viventi, ecco una ruota in terra, presso ciascun d’essi… L’aspetto delle ruote e la loro forma era come l’aspetto del crisolito: tutte e quattro si somigliavano: e il loro aspetto e la loro forma erano quelli d’una ruota che fosse attraversata da un’altra ruota. Quando si muovevano andavano tutte e quattro dal proprio lato e, andando, non si voltavano. Quanto ai loro cerchi, essi erano alti e formidabili: e i cerchi di tutte e quattro erano pieni d’occhi d’ogni intorno. Quando gli esseri viventi camminavano, le ruote si muovevano allato a loro; e quando gli esseri viventi si alzavano su da terra, si alzavano anche le ruote.”

La descrizione è di una precisione impressionante: Ezechiele afferma che ogni ruota era attraversata da un’altra ruota. Evidentemente un’illusione ottica: in realtà, secondo le nostre concezioni moderne, egli vedeva un rullo a vite perpetua come quelli che gli americani usano sulla sabbia del deserto e nelle regioni paludose. Ezechiele osservava che le ruote si sollevavano dal terreno insieme alle ali. E questo è esatto: naturalmente le ruote di un aeromezzo, per esempio un elicottero anfibio, non restano a terra quando esso si alza nell’aria.

E Ezechiele continua:

“Figlio d’uomo, rizzati in piedi, e io ti parlerò.”

Il narratore ode questa voce e spinto dal timore e dalla reverenza nasconde la faccia contro il suolo. Le strane apparizioni chiamano Ezechiele “figlio d’uomo” e vogliono parlare con lui. E il racconto continua (Ezechiele 3,12-13):

“… e io udii dietro a me il suono d’un gran fragore, quando la magnificenza dell’Eterno si levò dal luogo dove stava, e udii pure il rumore delle ali degli esseri viventi che battevano l’una contro l’altra, il rumore delle ruote allato ad esse, e il suono d’un gran fragore.”

Oltre alla descrizione abbastanza precisa del velivolo, Ezechiele nota anche il fragore che questo prodigioso e non mai visto oggetto produce quando si alza da terra. Definisce “rumore” il frusciare delle ali e “possente fragore” quello delle ruote. Ora, questa descrizione di un testimone oculare non può a meno di farci pensare. Gli “dei” parlarono con Ezechiele e gli intimarono di portare ordine e rettitudine in quella regione. Lo presero con sé nel loro velivolo, confermandogli così che non avevano ancora lasciato il paese. L’esperienza deve aver fatto una impressione profonda su Ezechiele, perché non si stanca mai di descrivere lo strano carro alato. Per tre volte ripete che ogni ruota era attraversata da un’altra e che le quattro ruote potevano andare da tutte le parti senza voltarsi. E in modo particolare lo ha colpito il fatto che l’intero corpo dei cherubini, il dorso, le mani e le ali, e persino le ruote erano costellati di occhi (Ez. 10,12). Più tardi gli “dei” rivelano al cronista gli scopi del loro viaggio, quando gli dicono ch’egli vive in mezzo a una generazione ribelle, che ha occhi per vedere e non vede, e ha orecchie per udire e non ode. Dopo avergli così illustrato la gente fra cui vive, gli danno consigli e ammonimenti – come in tutte le descrizioni di simili visite celesti  per instaurare ordine e moralità, e in complesso tutti i suggerimenti per una vera e propria .opera di civilizzazione. Ed Ezechiele prende molto seriamente il suo incarico e trasmette agli uomini gli ammonimenti degli “dei”. Qui siamo davanti a una selva di problemi. Chi parlò con Ezechiele? Che esseri erano quelli? Certamente non erano “dei” nel senso tradizionale, che non avrebbero bisogno di mezzi di trasporto per andare da un luogo all’altro. Questo tipo di locomozione ci sembra inconciliabile con la concezione del Dio onnipotente. Nel Libro dei Libri si trova un’altra invenzione tecnica di cui vai la pena di parlare a questo proposito, senza falsi riguardi. Nel libro dell’Esodo (25,10) Mosè riferisce le precise istruzioni dategli da “dio” per la costruzione dell’arca dell’alleanza. Le misure sono indicate al centimetro, e sono precisati i punti dove si devono applicare le stanghe e gli anelli, e la lega di cui devono esser composti i metalli. Le istruzioni miravano ad ottenere un’esecuzione precisa, secondo i desideri del “dio”, che infatti ammonisce più volte Mosè a non commettere errori. “E vedi di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte” (Esodo 25,40). “Dio” disse anche a Mosè che egli stesso gli avrebbe parlato, e precisamente dal coperchio dell’arca, o propiziatorio. Nessuno, egli aggiunse, doveva accostarsi all’arca dell’alleanza, e diede istruzioni precise per il trasporto, e per le vesti e i calzari da indossare. Ma nonostante tutte le precauzioni accadde un incidente (II Samuele, 6): mentre Davide faceva trasportare l’arca, Uzza le camminava a fianco. E poiché alcuni buoi che passavano urtarono l’arca minacciando di rovesciarla, Uzza stese la mano e la sorresse: ma come colpito dal fulmine cadde morto. Senza dubbio l’arca dell’alleanza era caricata elettricamente. Se cioè ricostruissimo oggi le istruzioni ricevute da Mosè, ne risulterebbe una tensione di parecchie centinaia di volt, derivata dalle due piastre d’oro, di cui una costituirebbe l’armatura positiva, l’altra quella negativa. E se uno dei due cherubini sul propiziatorio fungeva da magnete, l’altoparlante – forse addirittura un impianti ricetrasmittente fra Mosè e l’astronave – era perfetto. I particolari della costruzione dell’arca sono riferiti dalla Bibbia fin nei minuti particolari con bella prolissità. Ricordiamo, così in generale, che spesso l’arca era circondata di scintille, e Mosè, quando aveva bisogno di aiuto e di consiglio, si serviva di questa “emittente”. Mosè udiva la voce del Signore, ma non lo vide mai in faccia. E quando un giorno lo pregò di mostrarsi, il “dio” rispose:

“Tu non puoi veder la mia faccia, perché l’uomo non mi può vedere, e vivere.” E l’Eterno disse: “Ecco qui un luogo presso a me; tu starai su quel masso; e mentre passerà la mia gloria, io ti metterò in una buca del masso, e ti coprirò con la mia mano, finché io sia passato; poi ritirerò la mano e tu mi vedrai per di dietro; ma la mia faccia non si può vedere” (Esodo, 33,20).

Vi sono coincidenze che ci lasciano sconcertati. Nel poema di Gilgamesh, che appartiene alla più antica cultura sumerica ed è assai più antico della Bibbia, si trova stranamente nella quinta tavola la stessa frase: “Nessun mortale viene sul monte dove abitano gli dei. Chi vede gli dei in faccia deve morire.” In diversi antichi testi che ci tramandano periodi di storia dell’umanità vi sono descrizioni molto simili. Perché gli dei non volevano mostrarsi faccia a faccia? Perché non lasciavano mai cadere la maschera? Che cosa temevano? O la descrizione dell’Esodo è tratta dall’epopea di Gilgamesh? Anche questo è possibile: in fondo Mosè era stato, a quanto pare, allevato alla corte egiziana. Forse in quegli anni egli aveva accesso alle biblioteche o ebbe notizia di antichi misteri. Probabilmente noi dovremo riesaminare anche la nostra cronologia biblica, perché risulta che David, il quale visse molto tempo dopo, ebbe ancora a combattere contro giganti con sei dita alle mani e ai piedi (II Samuele, 21, 18-22). Si deve pensare anche alla possibilità che tutte le antiche storie e leggende siano state raccolte in un solo luogo e qui raggruppate in poemi, per poi diffondersi solo in un secondo tempo in tutti i paesi, un po’ mescolate fra loro e in parte copiate. I rotoli rinvenuti anni fa sulle rive del Mar Morto (testi di Qumran) costituiscono una preziosa e spesso sorprendente integrazione alla Genesi biblica. Una serie di scritti finora sconosciuti ci racconta di carri celesti, di figli del cielo, di ruote e di fumo che le apparizioni alate diffondevano intorno a sé. Nell’Apocalisse di Mosè (cap. 33) Eva levava gli occhi al cielo e vedeva avvicinarsi un carro di luce tirato da quattro aquile splendenti. Nessun essere umano avrebbe potuto descriverne lo splendore, dice Mosè. Infine il carro si era avvicinato ad Adamo e fra le ruote era uscito del fumo. Questa storia, fra parentesi, non ci dice molto di nuovo: comunque è qui la prima volta che, in rapporto ad Adamo ed Eva, si parla di carri di luce, di ruote e di fumo, come apparizioni celesti. Nel rotolo di Lamech è stata decifrata una vicenda fantastica. Poiché il rotolo ci è giunto in condizioni molto frammentarie, mancano nel testo frasi e interi periodi. Ma ciò che ne resta è abbastanza straordinario perché valga la pena di riferirne. Dunque, secondo questa tradizione, un bel giorno Lamech, padre di Noè, torna a casa e rimane sorpreso dalla presenza di un bambino che all’aspetto pareva del tutto estraneo alla famiglia. Lamech fece una scenata alla moglie Bat-Enosh affermando che il bambino non era certamente suo figlio. Ma Bat-Enosh giurò per quanto aveva di più sacro che il seme era suo, del padre Lamech: non veniva né da un soldato né da uno straniero né da uno dei “figli del cielo”. (Fra parentesi c’è da domandarsi: di che genere di figli del cielo parlava Bat-Enosh? Questo dramma di famiglia comunque si svolgeva prima del diluvio.) Lamech tuttavia non crede ai giuramenti della moglie, e profondamente turbato va a chiedere consiglio a suo padre Matusalemme, e gli racconta quella storia di famiglia che sembra così scandalosa. Matusalemme ascolta, si fa pensoso e anch’egli si mette in viaggio per andare a interrogare il saggio Enoch. Quell’intruso in famiglia fa tanto scandalo che il vecchio signore si decide ad affrontare gli strapazzi del lungo viaggio: era necessario far luce sull’origine del bambino. Matusalemme racconta dunque che nella famiglia di suo figlio è venuto fuori un bambino che non ha l’aspetto di un essere umano, ma piuttosto di un figlio del cielo: gli occhi, i capelli, la pelle, tutta la sua persona non sono dello stesso stampo degli altri. Il saggio Enoch ascolta il racconto e rimanda a casa il vecchio Matusalemme con una notizia estremamente inquietante: un grande giudizio incombe sulla Terra e sull’umanità e ogni “carne” vivente sarà annientata, perché è sporca e corrotta. Ma il piccolo bimbo dall’aspetto straniero, che la famiglia guarda con tanto sospetto, è destinato a divenire il progenitore della stirpe che sopravviverà al grande giudizio: perciò egli deve dar ordine a suo figlio Lamech di chiamare il bambino col nome di Noè. Matusalemme torna a casa, informa il figlio Lamech di ciò che li aspetta: e a Lamech non resta altro che riconoscere lo strano bimbo per suo e dargli nome Noè. Stranissima, in questa storia di famiglia, è la notizia che già i genitori di Noè erano informati dell’imminente diluvio e persino il nonno Matusalemme era stato preparato al terribile evento da quello stesso Enoch che poco dopo, secondo la tradizione, si sarebbe allontanato per sempre in un carro di fuoco. C’è da domandarsi seriamente se la razza umana non sia il risultato di un atto di intenzionale “procreazione” da parte di esseri extraterrestri venuti dal cosmo. Che senso può avere altrimenti il motivo sempre ricorrente di giganti e figli del cielo che fecondano la razza umana, e della successiva eliminazione degli esemplari mal riusciti? In questa prospettiva il diluvio universale diviene un progetto prestabilito di esseri sconosciuti che sono sbarcati con lo scopo di distruggere tutta la razza umana, tranne poche nobili eccezioni. Ma se il diluvio, che nel suo decorso è storicamente provato, fu programmato ed eseguito intenzionalmente – e anzi parecchi secoli prima che Noè ricevesse l’incarico di costruire l’arca – allora non si può più interpretarlo come un giudizio divino. Pensare a un’intenzionale procreazione di una razza umana intelligente oggi non è più una tesi così assurda. Come la saga di Tiahuanaco e l’iscrizione sul frontone della Porta del Sole parlano di una nave spaziale che depose la progenitrice sulla Terra perché vi partorisse dei figli, anche le antiche scritture sacre non si stancano di raccontare che “dio” creò l’uomo a sua immagine e somiglianza. Vi sono testi che riferiscono come occorressero parecchi esperimenti prima che l’uomo riuscisse come “dio” lo voleva. Ammettendo l’ipotesi di una visita di esseri intelligenti dal cosmo sulla nostra Terra, dovremmo supporre che noi siamo fatti a immagine e somiglianza di quei leggendari esseri stranieri. In questa catena di prove, anche le offerte sacrificali che gli “dei” chiesero ai nostri progenitori presentano curiosi enigmi. Non richiedevano solo fumo d’incenso e sacrifici di animali: spesso nell’elenco dei desideri figurano monete di leghe metalliche descritte con molta precisione. Infatti a Ezeon-Geber si è rinvenuta la più grande fonderia di metalli dell’antico Oriente: una vera e propria fornace fusoria con impianti modernissimi, un sistema di prese d’aria, tiraggi e aperture adatte. Gli esperti minerari dei nostri giorni si trovano davanti a un fenomeno non ancora chiarito: come era possibile in questi impianti antichissimi procedere alla depurazione e al raffinamento del rame? Di questo infatti senza dubbio si trattava, poiché nelle caverne e nei cunicoli intorno a Ezeon-Geber si trovarono grandi quantità di solfato di rame. A questi rinvenimenti si attribuisce un’età di almeno 5.000 anni. Se i nostri astronauti un giorno incontreranno su un pianeta degli esseri primitivi, anch’essi saranno accolti probabilmente come “figli del cielo” e “dei”. È possibile che in questi mondi sconosciuti, di cui non possiamo ancora farci un’idea, gli intelligenti esseri terrestri si trovino rispetto ai primitivi indigeni in una fase di progresso tecnico paragonabile a quella in cui i leggendari visitatori del cosmo dovettero trovarsi rispetto ai nostri antenati. Ma quale delusione, se su quel pianeta finora sconosciuto il ritmo del progresso è stato invece più celere, e i nostri astronauti vengono accolti non con venerazione, non come “dei”, ma con scherno e sorrisi di compatimento, come esseri primitivi viventi ancora in un’epoca di barbar

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