
Mentre dunque Enki affrontava la sua faticosa impresa pionieristica sulla Terra, Anu e l’altro suo figlio, Enlil, ne osservavano gli sviluppi dal Dodicesimo Pianeta. I testi mesopotamici affermano chiaramente che il vero responsabile della missione sulla Terra era Enlil, e perciò, appena si decise di proseguire la missione, egli stesso scese sulla Terra. Per lui si costruì una base speciale chiamata Larsa, e quando Enlil prese possesso di quel luogo, fu soprannominato ALIM (“ariete”), in coincidenza con l’”era” della costellazione zodiacale dell’Ariete. La fondazione della base di Larsa inaugurò una fase nuova della colonizzazione della Terra da parte dei Nefilim, i quali decisero di affrontare finalmente i veri obiettivi che si erano prefissi venendo sulla Terra; per far questo, però, avevano bisogno di far arrivare altra “forza lavoro”, arnesi e attrezzature dal loro pianeta, sul quale avrebbero poi rimandato i carichi preziosi. Il peso degli oggetti trasportati, a questo punto, era tale che non si poteva più procedere ad atterraggi in mare; le modificazioni climatiche, inoltre, avevano reso l’interno della regione più accessibile. Enlil progettò dunque da Larsa la costruzione di un “Centro di controllo della missione”, cioè un sofisticato posto di comando dal quale i Nefilim sulla Terra potevano coordinare i viaggi spaziali da e per il loro pianeta, guidare le navette nelle procedure di atterraggio e dirigerne l’aggancio con le astronavi in orbita attorno alla Terra. Il luogo che Enlil scelse a questo scopo, conosciuto per millenni con il nome di Nippur, fu da lui chiamato NIBRU.KI (“crocevia della Terra”). (Ricordiamo che il luogo del cielo in cui il Dodicesimo Pianeta passava più vicino alla Terra era detto “Luogo celeste dell’attraversamento”). È qui che Enlil fece costruire la DUR.AN.KI il “legame Cielo-Terra”. L’opera, com’è ovvio, fu lunga e complessa. Enlil rimase a Larsa per sei shar (21.600 anni) mentre si costruiva Nippur, e molto altro tempo ci volle per attrezzare Nippur di tutto l’occorrente. E infatti Enlil, che era stato associato all’Ariete mentre era a Larsa, venne in seguito associato al Toro: Nippur, dunque, fu fondata nell’era del Toro. In un poema devozionale concepito come Inno a Enlil, il Benefattore e nel quale si esaltava Enlil stesso, sua moglie Ninlil, la sua città Nippur e la sua “splendida casa” E.KUR, troviamo numerose informazioni su Nippur. Anzitutto, qui Enlil disponeva di alcuni sofisticatissimi strumenti: un “occhio sollevato che scruta la terra” e un “raggio sollevato che cerca il cuore di tutta la terra”. Nippur, ci dice il poema, era protetta da armi terribili: «La sua vista incute paura, anzi terrore»; dall’esterno «nessun dio, per quanto potente, può avvicinarsi». Il suo “braccio” era una “grande rete”, al centro della quale stava accovacciato “un uccello veloce”, alla cui “mano” nessun cattivo, nessun maligno poteva sfuggire. È possibile che il luogo fosse protetto da qualche fonte di radiazioni letali, o da una sorta di campo elettrico? E al centro vi era forse un elicottero, un “uccello” così veloce che nessuno poteva sfuggirgli? Al centro di Nippur, al di sopra di una piattaforma artificiale,stava il quartier generale di Enlil, il KI.UR (“luogo della radice della Terra”), che era il posto in cui sorgeva il “legame tra Cielo e Terra”. Si trattava, insomma, del centro di comunicazione del Controllo Missione, il luogo dal quale gli Anunnaki che stavano sulla Terra comunicavano con i loro compagni, gli IGI.GI (“coloro che girano e vedono”), che stavano a bordo dell’astronave in orbita attorno alla Terra. Al centro del KI.UR, continua il testo antico, vi era un «pilastro talmente alto che arrivava fino al cielo». Questa colonna altissima, saldamente ancorata al suolo «come una piattaforma che non può essere rimossa», veniva utilizzata da Enlil per «pronunciare la sua parola» verso il cielo. È evidente che si sta parlando di una torre di trasmissione. Quando la “parola di Enlil”, cioè il suo comando, «arrivava al cielo, l’abbondanza si riversava sulla Terra»: è un’allusione più che esplicita al flusso di materiali, cibi speciali, medicine e utensili che venivano portati a terra dalla navicella, una volta che da Nippur era stata mandata la “parola”. Questo centro di controllo posto su una piattaforma artificiale, la “splendida casa” di Enlil, conteneva una camera misteriosa, chiamata DIR.GA:
Misteriosa come le Acque lontane,
come lo zenit celeste.
Tra i suoi… emblemi,
gli emblemi delle stelle.
il ME essa porta a perfezione.
Le sue parole sono pronunciamenti…
Le sue parole sono benevoli oracoli.





Che cos’era questo dirga? Alcune lacune nell’antica tavoletta ci privano di ulteriori informazioni; ma il nome parla da solo, poiché significa “l’oscura camera a forma di corona”, un luogo dove venivano conservate le mappe stellari, dove venivano fatte predizioni, dove si riceveva e si trasmetteva il me (le comunicazioni tra astronauti). Un po’ come avviene nel Centro di Controllo di Houston, nel Texas, dove durante le missioni lunari vengono monitorati gli astronauti, amplificate le loro comunicazioni, tracciate le rotte spaziali e forniti “benevoli oracoli” che li guidino. Possiamo ricordare, a questo punto, la leggenda del dio Zu, che penetrò nel santuario di Enlil e rubò la Tavola dei Destini; da quel momento «fu sospesa l’emissione di comandi… la sacra camera interna perse il suo splendore… si diffuse l’immobilità… prevalse il silenzio». Nell’Epica della Creazione i “destini” degli dèi planetari erano le loro orbite. È ragionevole pensare, dunque, che la Tavola dei Destini, che tanta importanza aveva per le funzioni del Centro di Controllo di Enlil, servisse anch’essa a controllare le orbite e le traiettorie di volo delle navicelle spaziali che mantenevano il “legame” tra Cielo e Terra. Doveva trattarsi di una sorta di “scatola nera” contenente i programmi automatici che guidavano le navicelle, senza i quali i contatti tra i Nefilim sulla Terra e quelli nella madrepatria rischiavano di interrompersi. Secondo la maggior parte degli studiosi il nome EN.LIL significa “signore del vento”: ciò ben si adatta alla teoria secondo cui gli antichi “personificavano” gli elementi della natura e perciò associavano uno degli dèi ai venti e alle tempeste. Tuttavia è già stata avanzata l’ipotesi che in questo caso il termine LDL indichi non il vento come fenomeno atmosferico, ma il “vento” che esce dalla bocca – un pronunciamento, un comando, una comunicazione in forma orale. Ancora una volta, a far luce sulla materia ci pensano i segni pittografici arcaico-sumerici che indicano i termini EN – specie quando applicati a Enlil – e LDL. Ciò che tali segni mostrano, infatti, è una struttura dalla quale si alza un’alta torre munita di antenne e un altro oggetto che assomiglia molto ai giganteschi radar che oggi servono a ricevere ed emettere segnali – la “grande rete” di cui parlano i testi (figura 129).A Bad-Tibira, fondata come centro industriale, Enlil pose come comandante suo figlio Nannar/Sin; i testi lo chiamano NU.GIG (“quello del cielo notturno”). Qui crediamo che siano nati i gemelli Inanna/Ishtar e Utu/Shamash, come testimonierebbe anche l’associazione del loro padre Nannar con la costellazione zodiacale successiva, i Gemelli. Come divinità esperta in fatto di razzi, a Shamash venne assegnata la costellazione GIR (che significa sia “razzo” sia “chela di granchio”, o Cancro), mentre a Ishtar il Leone, sul cui dorso essa veniva tradizionalmente raffigurata. Anche la sorella di Enlil ed Enki, “l’infermiera” Ninhursag (SUD), ebbe la sua costellazione: a lei, a cui Enlil aveva affidato Shuruppak, il centro medico dei Nefilim, fu associata la costellazione della Vergine. Nel frattempo, completata Nippur, si passò a costruire la base spaziale dei Nefilim sulla Terra. I testi affermano a chiare lettere che Nippur era il luogo dove “le parole” – cioè gli ordini – venivano pronunciate: qui, quando «Enlil comandava: “Verso il cielo! “… quello che risplende si alzava come un razzo nel cielo». L’azione vera e propria, invece, si svolgeva “dove sorge Shamash”, e quel luogo – una specie di “Cape Kennedy” dei Nefilim – era Sippar, la città affidata al Capo delle Aquile, dove i razzi multistrato stavano all’interno del “recinto sacro”. Divenuto adulto, Shamash assunse il comando dei Razzi Fiammeggianti e, in seguito, divenne anche dio della giustizia: fu allora che gli vennero affidate le costellazioni dello Scorpione e della Bilancia. L’ultima delle sette Città degli Dèi a cui corrispondevano le dodici costellazioni zodiacali era Larak, a capo della quale Enlil pose suo figlio Ninurta. Nei testi egli viene chiamato PA.BIL.SAG (“grande protettore”), lo stesso nome che identificava la costellazione del Sagittario.Sarebbe decisamente irrealistico pensare che i Nefilim abbiano fondato queste sette città degli dèi a caso, senza alcun criterio. Questi “dèi”, che erano capaci di lunghi viaggi spaziali, devono aver avuto un piano specifico al riguardo, certamente legato all’esigenza di atterrare e decollare dal nostro pianeta. Quale fu, dunque, questo piano specifico? Prima di cercare una risposta a questa domanda, dobbiamo porcene un’altra: qual è l’origine del segno astronomico e astrologico della Terra, una croce inscritta in un cerchio – che è anche il simbolo che noi usiamo per indicare un obiettivo, un bersaglio? Il simbolo risale alle origini della scienza astronomica e astrologica a Sumer ed è identico al segno geroglifico egizio che significa “luogo”:Si tratta di una semplice coincidenza, o è qualcosa di più? Non potrebbe significare che, per atterrare sul nostro pianeta, i Nefilim indicavano con questo segno un obiettivo preciso su qualcosa che poteva assomigliare a una carta geografica? Vedendo dallo spazio la superficie della Terra, infatti, i Nefilim devono aver prestato particolare attenzione alle montagne e alle catene montuose: queste potevano rivelarsi un ostacolo per atterraggi e decolli, ma potevano anche servire come punti di riferimento per la navigazione. Se dunque i Nefilim, mentre sorvolavano l’Oceano Indiano, guardavano verso la “terra tra i due fiumi”, che avevano scelto come primo luogo di colonizzazione, devono aver individuato subito un punto di riferimento incontestabile: il Monte Ararat. Massiccio vulcanico spento, l’Ararat domina l’altopiano armeno, dove si trovano oggi i confini di Turchia, Iran e Armenia. A est e a nord si innalza per circa 1.000 m sul livello del mare, mentre nella parte nord-occidentale arriva a più di 1.500 m. L’intero massiccio ha un diametro di oltre 40 km e si presenta come un’enorme cupola che spicca dalla superficie della Terra. Altre caratteristiche lo fanno risaltare anche se lo si guarda dall’alto. Anzitutto si trova quasi a metà strada tra due laghi, il Lago Van e il Lago Se-Van. In secondo luogo, dal massiccio spiccano due altissime cime, il Piccolo Ararat (3.934 m) e il Grande Ararat (5.185 m), che non hanno eguali nella regione e che sono costantemente coperte di neve. Sono come due fari scintillanti in mezzo ai due laghi che, durante il giorno, fungono da giganteschi riflettori. Abbiamo ragione di credere che i Nefilim cercarono per l’atterraggio un luogo in cui un immaginario meridiano nord-sud si coordinasse con un punto di riferimento ben visibile e con una opportuna localizzazione su un fiume. Nel nord della Mesopotamia, l’Ararat, facilmente identificabile con le sue vette gemelle, rappresentava certamente un punto di riferimento più che evidente. Un meridiano tracciato in modo da attraversare il centro del massiccio avrebbe intersecato anche il corso dell’Eufrate. Questo fu l’obiettivo, il luogo scelto per il porto spaziale (figura 130).Vi si poteva atterrare e decollare con facilità? La risposta è sì: il luogo prescelto era una pianura, alquanto distante dalle catene montuose che circondano la Mesopotamia. Se la navetta arrivava da sud-est, le vette più alte (a est, nordest e nord) non rappresentavano un impedimento. Era un luogo abbastanza accessibile da permettere l’arrivo di astronauti e materiali senza troppe difficoltà? Anche in questo caso la risposta è sì: vi si poteva arrivare tanto via terra quanto via fiume, attraverso l’Eufrate. E un’ultima, cruciale domanda: c’era, lì vicino, una fonte di energia, del combustibile per la luce e per i motori? Sì che c’era. L’ansa dell’Eufrate dove sarebbe sorta Sippar era una delle più ricche fonti conosciute nell’antichità di bitumi di superficie, prodotti petroliferi che sgorgavano attraverso naturali fessure del suolo, senza che vi fosse bisogno di profondi scavi e trivellamenti. Se ci abbandoniamo un po’ alla fantasia, possiamo immaginare Enlil, circondato dai suoi assistenti nella sala di comando dell’astronave, che disegna su una carta geografica una croce racchiusa da un cerchio. «Come chiamiamo il posto?» avrà domandato. «Perché non Sippar?» qualcuno deve aver risposto. Nelle lingue del Vicino Oriente, quel nome significava “uccello”. Sippar era il luogo in cui le Aquile avrebbero fatto il loro nido. Come arrivavano a Sippar le navicelle spaziali? Come abbiamo già detto, la rotta migliore era quella da sudest: in tal modo le astronavi avrebbero avuto a sinistra l’Eufrate e l’altopiano montuoso a ovest di esso; a destra il Tigri e, più a est, i Monti Zagros. Se, avvicinandosi a Sippar, la navetta manteneva un facile angolo di 45° rispetto al meridiano di Ararat, sarebbe scesa senza difficoltà tra queste due zone pericolose. Mantenendo tale rotta, inoltre, avrebbe superato le impervie e rocciose regioni arabiche mentre era ancora in quota, per poi abbassarsi quando si trovava sopra il Golfo Persico. Sia all’andata sia al ritorno, infine, la navetta avrebbe potuto sempre mantenere un buon campo visivo e la comunicazione con il Centro di Controllo di Nippur. Ecco, allora, che l’assistente di Enlil avrà disegnato uno schema approssimativo – un triangolo con acque e montagne su ogni lato, che puntava come una freccia verso Sippar. Al centro, una “X” contrassegnava Nippur (figura 131).Per quanto incredibile possa sembrare, non siamo stati noi a disegnare lo schizzo: esso è stato rinvenuto su un oggetto di ceramica a Susa, in uno strato datato a circa il 3200 a.C. Il disegno ricorda il planisfero che illustrava la rotta e le procedure di volo, e che era suddiviso in segmenti di 45°. Gli insediamenti dei Nefilim sulla Terra, dunque, non furono messi a caso, ma solo dopo che si erano considerate tutte le alternative possibili, valutate tutte le risorse, presi in considerazione tutti i rischi. Inoltre, il piano stesso degli insediamenti fu studiato attentamente, in modo che ogni località rientrasse nello schema finale, che serviva a delineare il percorso per l’atterraggio a Sippar. Nessuno, finora, aveva cercato di capire se gli (apparentemente) sparsi insediamenti sumerici seguivano un qualche criterio generale. Ma se esaminiamo le prime sette città, troviamo che Bad Tibira, Shuruppak e Nippur si trovavano tutte su una linea che formava un angolo preciso di 45° rispetto al meridiano di Ararat e che incrociava il meridiano stesso esattamente a Sippar! Le altre due città di cui conosciamo l’ubicazione, Eridu e Larsa, si trovavano anch’esse lungo un’altra linea che incrociava la prima e il meridiano di Ararat proprio a Sippar. Basandoci sull’antico schizzo, che metteva Nippur al centro di un cerchio, e tracciando, a partire da Nippur, cerchi concentrici che toccano le diverse città, scopriamo che un’altra delle antiche città sumeriche, Lagash, si trovava esattamente su uno di questi cerchi, in posizione perfettamente speculare a Larsa. Anche se il sito dell’antica LA.RA.AK (“che vede l’alone luminoso”) non si conosce, è verosimile che la città si trovasse in quello che, nella figura 132, abbiamo individuato come punto 5. In quel punto, infatti, doveva esservi una città degli dèi, che completava la fila di città poste, a sei beru di distanza l’una dall’altra, sulla linea centrale di volo: Bad-Tibira, Shuruppak, Nippur, Larak, Sippar (figura 132). Le due linee esterne, che fiancheggiano quella centrale passante per Nippur, stanno ciascuna a 6° di distanza da quella e sembrano segnare il confine a sud-ovest e a nord-est della traiettoria centrale di volo. Non è un caso che due delle città che si trovavano su queste linee si chiamassero LA.AR.SA (“che vede la luce rossa”) e LA.AG.ASH (“che vede l’alone a sei”): le città si trovavano infatti a sei beru (circa 60 km) l’una dall’altra. Era questo, dunque, il piano generale dei Nefilim. Dopo aver scelto la localizzazione migliore per il loro porto spaziale (Sippar), essi costruirono gli altri insediamenti secondo uno schema che segnava il tragitto più agevole per arrivarvi. Al centro posero Nippur, sede del “legame Cielo- Terra”.Non potremo mai vedere le vere città degli dèi, né i loro resti, perché tutto fu distrutto e spazzato via dal Diluvio universale. Sappiamo molto di loro, tuttavia, perché era sacro dovere dei re mesopotamici ricostruire continuamente i recinti sacri esattamente nello stesso posto e secondo lo schema originario. E chi ricostruiva ci teneva ad attestare di aver rigorosamente rispettato il progetto originario, come dimostra questa iscrizione scoperta da Layard:
L’eterno progetto
che per il futuro
la costruzione fissò
[io ho seguito].
È quello che porta
i disegni dei tempi antichi
e gli scritti del cielo più alto.






Se, come abbiamo ipotizzato, Lagash era una delle città che fungevano da “faro di segnalazione” per l’atterraggio, allora gran parte delle informazioni che ci diede Gudea nel III millennio a.C. acquistano un significato compiuto. Egli scrisse che quando Ninurta gli ordinò di ricostruire il recinto sacro, un altro dio gli diede i progetti architettonici (tracciati su una tavoletta di pietra) e una dea (che aveva “viaggiato tra Cielo e Terra” nella sua “camera”) gli mostrò una mappa del cielo e gli insegnò quali allineamenti astronomici seguire nella costruzione. Oltre al “divino uccello nero”, vennero sistemati nel recinto sacro anche il “terribile occhio” del dio (“il grande raggio che sottomette il mondo al suo potere”) e il “controllore del mondo” (il cui suono “riverberava tutto intorno”). Infine, terminata la costruzione, vi fu posto sopra “l’emblema di Utu”, rivolto “verso il luogo dell’ascesa di Utu”, cioè verso il porto spaziale di Sippar. E fu Utu stesso, ultimati i lavori, a “venire gioiosamente” a ispezionare il recinto con tutti gli importanti strumenti di trasmissione che esso conteneva.Nell’antica iconografia sumerica si trovano spesso delle strutture alquanto massicce, fatte anticamente di canne e legno, che spiccano nei campi dove pascola il bestiame. Si è pensato che fossero rudimentali stalle per gli animali, ma in questo caso non si spiegherebbero i pilastri, o colonne, che sempre compaiono sui tetti di tali strutture (figura 133a). I pilastri, come si può vedere, servivano come supporto per uno o più paia di “anelli”, la cui funzione non viene precisata. Tuttavia, anche se queste strutture venivano poste nei campi, sembra improbabile che servissero a riparare il bestiame. I pittogrammi sumerici (figura 133b) che raffigurano la parola DUR, o TUR (che significa “dimora”, “luogo di raduno”) sono composti da segni che rappresentano indubbiamente le stesse strutture che abbiamo esaminato prima e che mostrano chiaramente come la caratteristica principale della struttura non fosse la “capanna”, che appare piccola e stilizzata, bensì la torre-antenna. Pilastri simili muniti di “antenne” erano posizionati anche all’ingresso dei templi, all’interno dei recinti sacri degli dèi, e non soltanto nei campi (figura 133e). Non potrebbe essere, allora, che questi oggetti fossero davvero delle “antenne” fissate ad apparecchi di trasmissione? Che gli anelli fossero dei radar, posti nei campi per guidare le operazioni di atterraggio delle astronavi? Quelle colonne simili a occhi non potevano essere una sorta di “telecamere”, gli “onnivedenti occhi” degli dèi di cui parlano tanti testi?Le apparecchiature a cui questi oggetti erano collegati erano certamente portatili, poiché alcuni sigilli sumerici raffigurano “oggetti divini” a forma di cassa trasportati su imbarcazioni o caricati sul dorso di animali da soma, che, una volta attraccata l’imbarcazione, li portavano nell’entroterra (figura 134).L’aspetto di queste “scatole nere” riporta alla mente l’Arca dell’Alleanza costruita da Mosè secondo le istruzioni di Dio. La cassa doveva essere fatta di legno rivestito d’oro sia internamente che esternamente: due strati conduttori di elettricità isolati da uno strato di legno. Un kapporeth, anch’esso d’oro, doveva essere posto sopra la cassa e sostenuto da due cherubini d’oro massiccio. Non si sa che cosa sia questo kapporeth (letteralmente, secondo gli studiosi, “copertura”); c’è però un verso dell’Esodo che ne suggerisce la funzione: «E io mi rivolgerò a te da sopra il Kapporeth, tra i due cherubini». L’ipotesi che l’Arca dell’Alleanza altro non fosse che uno strumento di comunicazione a funzionamento elettrico è avvalorata anche dalle istruzioni per il suo trasporto. Nessuno, per nessuna ragione, doveva toccarla: essa doveva essere portata mediante bastoni di legno fatti passare attraverso quattro anelli d’oro, e quando un israelita si provò a toccarla, ne rimase ucciso all’istante, come colpito da una potente scarica elettrica. Questi apparecchi apparentemente soprannaturali – che permettevano di comunicare con una divinità anche se questa si trovava fisicamente da un’altra parte – divennero veri e propri oggetti di culto: idoli a forma di “occhio” sono stati rinvenuti nei templi di Lagash, Ur, Mari e altri siti archeologici antichi.L’esempio più evidente è quello trovato a Teli Brak, nel nordovest della Mesopotamia, dove sorgeva un tempio che gli archeologi hanno chiamato “tempio dell’occhio”, sia perché vi sono stati trovati centinaia di oggetti di culto a forma di occhio, sia perché sopra l’altare che si trovava nel sacrario interno del tempio vi era una grossa pietra a forma di “doppio occhio” (figura 135).Si tratta, con tutta probabilità, di una copia del vero oggetto divino -“l’occhio terribile” di Ninurta, o quello che stava a Nippur, presso il Centro di Controllo della missione, di cui l’antico scriba diceva: «Il suo occhio sollevato osserva la terra… il suo raggio elevato scruta la terra». Per le sue caratteristiche, il territorio della Mesopotamia rendeva necessaria la costruzione di piattaforme sulle quali sistemare le attrezzature di comunicazione con lo spazio. Dai testi e dalle rappresentazioni iconografiche si capisce che vi era tutta una gamma di queste strutture, dalle prime “capanne” nei campi alle successive piattaforme multipiano, alle quali si accedeva tramite scalinate o rampe che portavano dal piano inferiore, più ampio, ai piani superiori sempre più stretti. In cima allo ziggurat veniva costruita una residenza per il dio, circondata da un cortile piatto e cinto di mura, dove erano custoditi l’”uccello” e le “armi”. Uno ziggurat raffigurato su un sigillo cilindrico mostra, oltre alla caratteristica struttura multipiano, anche due “antenne ad anello” alte, sembra, quanto tre piani (figura 136).Marduk sosteneva che lo ziggurat e il complesso del tempio di Babilonia (I’E.SAG.IL) erano stati costruiti secondo le sue istruzioni e in conformità agli “scritti del Cielo più alto”. André Parrot (Ziggurats et Tour de Babel, «Ziggurat e Torre di Babele») analizzò una tavola (detta Tavola di Smith dal nome dello studioso che la decifrò) che ci illustra struttura e dimensioni di uno ziggurat a sette piani. Si tratta di un edificio a pianta quadrata, in cui ogni lato misura 15 gar. I piani superiori erano progressivamente più piccoli per altezza e superficie, eccetto l’ultimo (la residenza del dio), che era più alto. L’altezza totale, comunque, era anch’essa pari a 15 gar. in tal modo la struttura, oltre che a pianta perfettamente quadrata, era anche perfettamente cubica.Il gar utilizzato per queste misurazioni equivaleva a 12 cubiti corti, pari a circa 6 metri. Due studiosi, H.G. Wood e L.C. Stecchini, hanno dimostrato che la base sessagesimale sumerica, il numero 60, determinava tutte le principali misure degli ziggurat mesopotamici. Ogni lato della base misurava 3×60 cubiti; perciò il perimetro totale era di 720 cubiti, ossia 60 gar (figura 137).Che cosa determinava l’altezza dei vari piani? Stecchini scoprì che se si moltiplicava l’altezza del primo piano (5, 5 gar) per i doppi cubiti, il risultato era 33, un valore che corrispondeva approssimativamente alla latitudine di Babilonia (32, 5° Nord). Calcolato in modo analogo, il secondo piano innalzava l’angolo di osservazione a 51° e ognuno dei quattro piani successivi lo innalzava di altri 6°. Il settimo piano, quindi, stava su una piattaforma che si trovava a 75° sopra l’orizzonte alla latitudine geografica di Babilonia. Quest’ultimo piano aggiungeva altri 15°, cosicché lo sguardo di un osservatore che da questo piano guardasse diritto davanti a sé cadeva a un angolo di 90° dall’orizzonte. Stecchini trasse la conclusione che ogni piano fungesse da osservatorio astronomico a sé stante, con un’altezza predeterminata in base all’arco del cielo. Non si può escludere, naturalmente, che dietro tali misurazioni vi fossero altre considerazioni “nascoste”. Mentre l’elevazione di 33° non era molto precisa per Babilonia, era esatta per Sippar. Vi era forse una relazione tra l’elevazione di 6° per ognuno dei quattro piani e la distanza di 6 beru tra le “città degli dèi”? E i sette piani erano in qualche modo collegati all’ubicazione delle prime sette città, o magari alla posizione della Terra in quanto settimo pianeta? G. Martiny (Astronomisches zur babylonischen Turn) dimostrò che queste caratteristiche dello ziggurat servivano proprio per l’osservazione del cielo e che il piano superiore dell’Esagita era orientato verso il pianeta Shupa (che abbiamo identificato con Plutone) e la costellazione dell’Ariete (figura 138).Ma era davvero questa l’unica funzione degli ziggurat, quella, cioè, di fungere da punto di osservazione per stelle e pianeti, oppure queste strutture servivano anche a guidare la discesa delle astronavi dei Nefilim? Tutti gli ziggurat erano orientati in modo che i loro angoli puntavano esattamente verso nord, sud, est e ovest: i loro lati, perciò, erano situati esattamente a 45° rispetto ai quattro punti cardinali. Ciò significa che un veicolo spaziale in fase di atterraggio poteva far coincidere la linea di volo con uno dei lati, arrivando così senza difficoltà a Sippar! Il nome accadico-babilonese di tali strutture, zukiratu, significava letteralmente “tubo di spirito divino”. I Sumeri chiamavano gli ziggurat ESH, un termine che significa “supremo”, “altissimo”, come in effetti erano queste strutture.La parola, tuttavia, poteva anche indicare un’entità numerica legata all’aspetto “misurativo” dello ziggurat, e anche una “sorgente di calore” (letteralmente “fuoco” in accadico e in ebraico). Anche gli studiosi che hanno affrontato l’argomento senza proporne un’interpretazione “spaziale” non poterono esimersi dal concludere che gli ziggurat dovevano avere qualche altra funzione, oltre quella di rappresentare una dimora del dio “in posizione sopraelevata”. Samuel N. Kramer così sintetizzò l’opinione dominante: «Lo ziggurat, la torre a gradini, che divenne il segno distintivo dell’architettura templare mesopotamica… doveva fungere da legame, reale e simbolico insieme, tra gli dèi in cielo e i mortali in terra». Noi, invece, abbiamo dimostrato che la vera funzione di tali strutture era di mettere in comunicazione gli dèi in Cielo con gli dèi – non i mortali – in Terra.