Corano, Islam

Il corano

Il Corano (in arabo: القرآن‎, al-Qurʾān; letteralmente: «la lettura» o «la recitazione salmodiata») è il testo sacro della religione dell’Islam.
Per i musulmani il Corano, così come viene letto oggi, rappresenta il messaggio rivelato quattordici secoli fa da Dio (in arabo Allāh) a Maometto (in arabo Muḥammad) per un tramite angelico e destinato a ogni essere umano sulla Terra. Sarebbe stato recitato da Maometto a vari testimoni, che ne impararono a memoria alcuni versetti o tutto il suo corpus, oltre a vari compilatori – detti kuttāb – tra cui Muʿāwiya b. Abī Sufyān, ʿAbd Allāh b. Saʿd b. Abī Sarḥ e Zayd b. Thābit. Dai kuttāb venne quindi scritto su vari supporti (presumibilmente foglie della palma, scapole di grandi animali, pezzi di legno, pergamena, papiro, tessuti serici), poi raccolti e risistemati definitivamente su ordine del califfo ʿUthmān b. ʿAffān.

Egli avrebbe fatto realizzare le prime quattro copie complete manoscritte (che inviò nelle quattro città principali della Umma) e fece bruciare le versioni discordanti. A questo riguardo si è ipotizzato che dei manoscritti ritrovati a Ṣanʿāʾ nel 1972, più antichi di quelli di ʿUthmān , potessero costituire una versione inedita del Corano, diversa da quella conosciuta; l’analisi dei testi ha tuttavia dimostrato che non contenevano sostanziali variazioni e che si trattava di manoscritti di fortuna, probabilmente utilizzati da musulmani non raggiunti dal testo di ʿUthmān. Nel giro di venti anni dalla morte di Maometto il Corano comparve comunque nella sua forma scritta ed escluse le aggiunte di circa mille Alif (prima lettera dell’alfabeto arabo) disposte – secondo lo studioso tedesco Gerd-Rüdiger Puin – da al-Ḥajjāj b. Yūsuf nel 700; esso sarebbe rimasto pressoché invariato.

Lo stesso Puin ipotizza che le copie ancora oggi osservabili a Tashkent, a Istanbul e a Londra fossero state redatte a uso esclusivo di chi già conosceva bene a memoria il Corano («The text was written so defectively that it can be read in a perfect way only if you have a strong oral tradition»).
Studiosi occidentali non musulmani hanno proposto diverse ipotesi sull’origine del testo coranico, mettendone in discussione l’autore, il contesto di origine e i riferimenti a testi e dottrine e leggende già presenti ai margini dell’Impero romano d’Oriente.

Il Corano è diviso in 114 capitoli, detti sūre, a loro volta divise in 6236 versetti (sing. āya, pl. āyyāt), 77.934 parole e 3.474.000 consonanti. Questo numero però varia per la redazione messa a punto in alcuni ambienti sciiti che vi comprendono infatti alcuni versetti riguardanti l’episodio del Ghadir Khumm e due intere sure, chiamate “delle due luci” (sūrat al-nūrayn) e “della Luogotenenza” (sūrat al-wilāya). Ogni sura, con l’eccezione della nona, comincia con: “Nel nome di Dio, il clemente, il misericordioso”, un versetto che è conteggiato solo nella prima sura.

Il Corano viene artificiosamente diviso in 30 parti (juzʾ), mentre col termine ḥizb (letteralmente “parte”) o manzil (letteralmente “casa”) viene indicata da più di un secolo ogni sessantesima parte del Corano, marcata da un simbolo tipografico speciale, collocato al margine della copia a stampa.

Tale divisione è legata alla pia pratica di recitare il testo coranico (un intero juzʾ, eventualmente ripartito in due ḥizb), da recitare in momenti diversi della giornata, nel corso di tutto il mese lunare di Ramadan (di 30 giorni) in cui si crede che la Rivelazione sia stata fatta “discendere” da Dio al profeta Maometto. Tuttavia la ripartizione più anticamente attestata è quella di recitare il Corano per juzʾ, anziché per ḥizb/manzil.
Gli ḥizb o manzil risultano essere (con l’esclusione della Sura al-fātiḥa, ovvero “sura aprente” che apre l’elenco delle 114 sure), in funzione della diversa lunghezza delle sure:

  • Manzil 1 = 3 Sure, cioè 2–4
  • Manzil 2 = 5 Sure, cioè 5–9
  • Manzil 3 = 7 Sure, cioè 10—16
  • Manzil 4 = 9 Sure, cioè 17—25
  • Manzil 5 = 11 Sure, cioè 26—36
  • Manzil 6 = 13 Sure, cioè 37—49
  • Manzil 7 = 65 Sure, cioè 50—114

Le sure sono divise in meccane medinesi, a seconda del periodo in cui furono rivelate. Le prime sono state rivelate prima dell’emigrazione (Egira) di Maometto da Mecca a Medina, le seconde sono invece quelle successive all’emigrazione. Questa divisione non identifica peraltro il luogo della rivelazione, ma il periodo storico. In generale le sure meccane sono più brevi e di contenuto più intenso e immediato da un punto di vista emotivo (si racconta di conversioni improvvise al solo sentire la loro predicazione); le sure medinesi risalgono invece al periodo in cui il profeta Maometto era a capo della neonata comunità islamica e sono caratterizzate da norme religiose e istruzioni attinenti alla vita della comunità.

Le sure – aperte tutte, salvo la sura IX, dalla basmala – cioè dalla formula Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso (in arabo: بسم الله الرحمن الرحيم ‎, Bi-smi llāhi al-Raḥmāni al-Raḥīmi) – non sono disposte in ordine cronologico ma secondo la lunghezza (cosa che rende complicatissima un’accettabile comprensione del Testo Sacro islamico attraverso una sua lettura superficiale), anche se per i musulmani esse sono state disposte nell’ordine in cui furono insegnate al profeta Maometto dall’angelo Gabriele (in lingua araba Jabrāʾīl o Jibrīl), e quindi come il profeta le avrebbe successivamente recitate ai fedeli durante il mese di ramadan. L’ordine non riflette comunque la loro importanza in quanto per i fedeli dell’Islam esse sono tutte egualmente importanti.
Analizzando l’ordine delle sure da un punto di vista storico-sociologico si può cercare l’influenza del periodo storico e del contesto in cui furono trascritte. Conducendo un’analisi laica, si può ipotizzare che il Corano fu così confezionato perché il contesto sociale imponeva che si fosse più attenti al lato politico del carisma del profeta, cioè come si era espresso a Medina, in un tempo cronologico più vicino a chi ne aveva assunto l’eredità religiosa e politica. Secondo questa ipotesi, questa struttura corrisponde a un disegno preciso, coerente con le esigenze di un potere che aveva bisogno di dare uno stabile fondamento di autorità ai nuovi ordinamenti sociali e politici.

Foglio pergamenaceo di un Corano d’età abbaside (Egitto, IX-X secolo): il foglio riporta alcuni versetti della sura 22 – detta al-Ḥajj – e riguarda per l’appunto alcune regole da seguire nel corso del pellegrinaggio canonico a Mecca e dintorni

Malgrado ogni sforzo di fissare per iscritto senza alcun errore il testo delle rivelazioni, non poté essere tuttavia conservato al di là d’ogni dubbio il ritmo delle frasi. Ciò era dovuto al fatto che la lingua araba non conosceva i segni d’interpunzione e ogni proposizione acquistava una sua autonomia solo tramite le congiunzioni “wa” e “fa” (quest’ultima marcante il cambiamento di soggetto rispetto alla proposizione precedente). La buona fede dei musulmani può essere attestata dal fatto che, consci che l’esistenza o meno di una pausa può mutare il significato della frase (valga l’esempio del noto adagio latino: Ibis redibis non morieris in bello), gli incaricati di redigere il testo non imposero, per mancanza di unanimità di consensi, una lettura che prevalesse rispetto alle altre concorrenti.
Tale diversità di “letture” (qirāʾāt) è ancora una delle caratteristiche delle copie stampate del Corano, che privilegerà questa o quella delle tante “letture”. L’edizione commissionata in Egitto da re Fuʾād I e realizzata nel 1924, decise che per quella che viene chiamata “edizione fuʾadina” si usasse quella di Ḥafṣ b. Sulaymān b. al-Mughīra al-Asadī, recepita da ʿĀṣim b. Abī al-Najūd di Kufa. Ibn Mujāhid ha documentato sette diverse letture, a cui Ibn al-Jazrī ne aggiunse altre tre. Esse sono:

  1. Ibn ʿĀmir di Damasco (m. 736), trasmessa da Hishām e Ibn Zakwān
  2. Ibn Kathīr di Mecca (m. 737), trasmessa da al-Bazzī e Qunbul
  3. ʿĀṣim di Kufa (m. 745), trasmessa da Shuʿba e Ḥafṣ
  4. Abū Jaʿfar al-Makhzūmī di Medina (m. 747), trasmessa da Ibn Wardān e Ibn Jammāz
  5. Abū ʿAmr b. al-ʿAlāʾ di Bassora (m. 770), trasmessa da al-Dūrī e al-Sūsī
  6. Ḥamza di Kufa (m. 772), trasmessa da Khalaf e Khallād
  7. Nāfiʿ di Medina (m. 785), trasmessa da Warsh e Qalūn
  8. al-Kisāʾī di Kufa (m. 804), trasmessa da Abū l-Ḥārith e al-Dūrī
  9. Yaʿqūb al-Ḥaḍramī (m. 820), trasmessa da Ruways e Rawḥ
  10. Khalaf di Kufa (m. 843), trasmessa da Isḥāq e Idrīs

Oltre a esse ne furono accolte ancora altre quattro:

  1. al-Ḥasan al-Baṣrī di Bassora (m. 728)
  2. Ibn Muḥaysin di Mecca (m. 740)
  3. al-Aʿmāsh di Kufa (m. 765)
  4. al-Yazīdī di Bassora/Baghdad (m. 817)

Sebbene già nel 1542 Martin Lutero, con una mossa che fece molto discutere, autorizzasse una nuova traduzione del Corano in lingua latina (effettuata da Bibliander) con lo scopo di mostrarne la presunta “inferiorità” rispetto alla Bibbia,soltanto a partire dalla metà del XIX secolo il Libro ha cominciato a essere passato al vaglio dell’analisi storiografica e filologica moderna, che cercano di verificarne l’attendibilità storica. Nonostante questo, al giorno d’oggi ancora non esiste una vera e propria “edizione critica” compilata con criteri moderni e scientifici.

Per la teologia musulmana il Corano è stato dettato direttamente a Maometto da Allah, in arabo puro, tramite l’angelo Gabriele. Tuttavia la parola del Corano esisterebbe da sempre, increata ed eterna. Le oscurità e le contraddizioni presenti nel testo sacro sono state spiegate dai musulmani con la teoria che le rivelazioni più recenti avrebbero abrogato quelle più antiche, e per questo motivo nel corso dei secoli gli studiosi musulmani hanno cercato di ricreare, in maniera sempre più dettagliata, la vita del Profeta, per determinare l’ordine cronologico delle rivelazioni coraniche (il testo coranico non è narrativo, presenta numerose digressioni e salti logici, e i capitoli sono ordinati secondo la lunghezza). Per questo motivo generalmente i versetti ritenuti medinesi sono visti come più vincolanti rispetto a quelli meccani.
Date queste premesse, per i musulmani appare superflua ogni analisi filologica volta a ricostruire il contesto storico e le influenze che possono avere portato alla formazione del testo coranico. Anzi, la teologia islamica è particolarmente gelosa e assertiva nel ribadire la assoluta soprannaturalità della rivelazione, la sua perfezione, unicità e inimitabilità.
Gli storici di formazione critica occidentale (chiamati anche “revisionisti”), tra cui si possono ricordare, dopo il loro alfiere John Wansbrough, anche studiosi di vaglia come Patricia Crone e Michael Cook, colui che si firma con lo pseudonimo di Christoph Luxenberg  Günter Lüling, o Yehuda D. Nevo hanno sviluppato la loro linea di ricerca, già percorsa in qualche misura da studiosi medievali non musulmani, avanzando ipotesi sulla formazione del Corano non derivate da presupposti soprannaturali, prendendo atto della presenza di numerosi riferimenti a testi più antichi, dottrine, miti e racconti diffusi nel mondo siriano, greco-romano e arabo dell’epoca di Maometto e precedente.
Nel Corano si trovano infatti riferimenti a testi talmudici, dottrine gnostiche, leggende di santi (ad esempio la leggenda dei sette dormienti di Efeso), la leggenda di Alessandro Magno e Gog e Magog, inni cristiani e altro materiale antico, diffuso intorno ai margini orientali dell’Impero Romano. Per gli studiosi moderni infatti è più importante determinare non tanto in quali circostanze il profeta avrebbe ricevuto le rivelazioni, considerando la assoluta scarsità di testimonianze e documenti antichi relativi alla vita di Maometto (le prime biografie risalgono a quasi 200 anni dopo la data ufficiale della sua morte), ma ricostruire il contesto e le stratificazioni dei materiali che hanno dato origine al nucleo più antico del Corano.

Fogli del Corano conservato a Tashkent (Uzbekistan)

Secondo i musulmani il testo della rivelazione coranica è immutabile nel corso dei secoli; conseguentemente esso viene tramandato dai musulmani parola per parola, lettera per lettera. Non sono stati pochi i musulmani di ogni sesso che in tutto il mondo e in tutti gli ultimi quattordici secoli hanno imparato a memoria le centinaia di pagine in lingua araba che costituiscono il Testo Sacro. Questo processo è noto con il nome di ḥifẓ, che significa difesa, conservazione. Memorizzare il testo del Corano sarebbe un modo per garantirne la preservazione nella sua forma autentica nel corso dei secoli.

Sebbene il Corano sia stato tradotto in quasi tutte le lingue, i musulmani utilizzano tali traduzioni solo come strumenti ausiliari per lo studio e la comprensione dell’originale in arabo; la recitazione liturgica da parte del fedele musulmano deve avvenire sempre e comunque in arabo, essendo il Corano “Parola di Dio” (kalimat Allāh) e pertanto non facilmente ‘interpretabile’. L’Islam professa infatti che è in questa lingua che la rivelazione divina è stata trasmessa al profeta Maometto tramite l’angelo Gabriele.
Per l’Islam la Parola di Dio è il Corano, mentre il profeta Maometto rappresenta il semplice strumento attraverso cui sarebbe avvenuta la rivelazione del Corano all’umanità. Secondo la tradizione, nel corso del periodo che va approssimativamente dal 610 al 632 (anno della morte del profeta) il Corano sarebbe stato rivelato a Maometto, dapprima per sure intere e brevi e quindi per brani, in considerazione della lunghezza talvolta notevole delle sure. Il profeta stesso provvedeva a indicare dove un certo brano dovesse essere disposto, con ciò costringendo a un notevole sforzo mnemonico i suoi sempre più numerosi fedeli che intendevano imparare a memoria la Parola di Dio.

Numerosi sono gli episodi riguardanti la prima provvisoria sistemazione del materiale rivelato, con richieste frequenti d’interpretazioni di passaggi ritenuti oscuri dai fedeli e anche con qualche episodio che generò turbamento in alcuni musulmani. Ci riferiamo in particolare all’accusa di al-Ḥakam b. Abī l-ʿĀṣ che sarebbe stato condannato all’esilio da Medina per aver sospettato Maometto di sostituire il suo pensiero a quello di Allah nel rivelare il Sacro Testo, o al segretario – nel senso di “scrivano” (kātib) – ʿAbd Allāh b. Saʿd b. Abī Sarḥ, che trascrivendo una rivelazione, aggiunse di suo pugno una lode a Dio che Maomettò considerò rivelata. Il sospetto che Maometto fosse un impostore si affacciò evidentemente con forza alla mente dello scriba che, abiurando, fuggì alla volta della Siria, onde evitare la punizione capitale prevista per il grave peccato di apostasia (ridda). Questa ricostruzione, peraltro molto utilizzata dai missionari cristiani, è però messa in dubbio dagli esegeti musulmani, in quanto i versetti in questione sarebbero stati rivelati alla Mecca prima della conversione stessa di ʿAbd Allāh. Pentito, tornerà dal profeta più tardi per essere perdonato e a lui sarà più tardi riservata all’epoca del califfato dell’omayyade Muʿāwiya b. Abī Sufyān una lusinghiera carriera militare e amministrativa.

La precarietà da un lato del ductus consonantico (rasm) della lingua araba scritta e dall’altro del materiale stesso fino ad allora usato per vergare in modo approssimativo i brani della rivelazione coranica, nonché la morte nella battaglia di ʿAqrabāʾ (12 maggio 633/rabīʿ I 12) in Yamāma, nel quadro della guerra della cosiddetta “Ridda”, di un numero particolarmente elevato di fedeli musulmani (qurrāʾ) che avevano memorizzato per intero il Testo Sacro, indusse già il primo califfo Abū Bakr a incaricare della trasposizione per iscritto del Corano un gruppo di persone coordinato dal principale scrivano del profeta, Zayd ibn Thābit.
Il lavoro di raccolta e collazione del materiale coranico conobbe evidentemente un rallentamento a causa della morte nel 634 di Abū Bakr e dell’avvio sotto il secondo califfo ʿUmar della convulsa fase delle conquiste arabo-islamiche in Siria-Palestina, Egitto, Mesopotamia e Iran occidentale. Sarebbe stato così il terzo califfo ʿUthmān ad avere il merito della sistematizzazione definitiva della redazione scritta dell’intero testo coranico (muṣḥaf).

Ancora una volta a coordinare lo sforzo fu Zayd ibn Thābit e il principio fu quello di accettare solo quelle tradizioni che, separatamente testimoniate da due musulmani che le avevano raccolte di persona, fossero in tutto e per tutto combacianti alla lettera. Una sola eccezione fu fatta per Khuzayma ibn Thābit (m. 657), la cui eccezionale memoria e affidabilità gli aveva procurato da parte di Maometto il soprannome onorifico di Dhū l-shahādatayn (“quello delle due testimonianze”), per il quale fu accettato il principio della validità della sua unica certificazione.

A redazione ultimata, il califfo dette disposizione affinché quattro copie – identiche a quella conservata a Medina – fossero inviate nei quattro amṣār fino ad allora costituiti o esistenti (al-Kūfa, al-Baṣra, Mecca e Siria, chiamata allora al-Shām) e che le copie divergenti da quella per suo incarico raccolta fossero distrutte. È noto che uno dei primi musulmani, Ibn Masʿūd, proprietario di una copia da lui stesso vergata e alquanto difforme da quella di ʿUthmān, si rifiutò d’ubbidire e venne per questo maltrattato dalle guardie del califfo inviati a sequestrargliela e a distruggerla che, però, pare agissero più di loro iniziativa che per sua specifica autorizzazione. Ibn Masʿūd viene definito da Caetani un uomo “incomodo ed irrequieto, forse assai vano”, anche se la tradizione ne ricorda i meriti in quanto “possedeva… una vivace intelligenza e sovrattutto una buona memoria”. Alcune fonti storiche – chiaramente collegate alla polemica che contrappose più tardi sciiti a sunniti per quanto riguardava il contenuto della vulgata coranica di ʿUthmān – esprimono dubbi sulla sua cultura e sul suo livello d’istruzione, a dispetto del fatto che Ibn Masʿūd apparteneva a quei Compagni cui il Profeta aveva preannunciato il Paradiso già in vita. È noto infatti che a Medina egli propugnasse versioni del Corano piuttosto differenti da quelle conosciute. Nonostante si vantasse della sua posizione di domestico intimo del Profeta, accreditato com’era dell’essere stato la sesta persona ad aver abbracciato la religione islamica, non fu accolto nel novero dei Compagni – tutti decisamente più colti di lui – che si incaricarono poi di redigere il testo coranico e che furono oggetto di una sua vibrante khuṭba di protesta nella moschea di Kufa, forte del fatto di aver ascoltato dalla bocca del Profeta più di settanta Sure coraniche. La polemica tra lui e il califfo, comunque, scandalizzò parecchi vecchi musulmani e concorse a rovinare in parte la reputazione e la popolarità di ʿUthmān.

A lato di tale presupposto teologico di assoluta immutabilità del testo, un piccolo numero di studiosi orientalisti, contraddetti dalla maggior parte degli islamisti, ha fatto notare che il Corano sarebbe stato oggetto di una certa evoluzione: la versione attuale, a loro parere, apparirebbe come il frutto di numerose redazioni compiute fino a due secoli dopo la morte di Maometto, e gran parte del contenuto del libro sarebbe già esistito prima della sua nascita. Attiene al problema delle fonti il fatto che, forse, sia presente all’inizio della sura XIX un accenno ai Vangeli apocrifi laddove si parla della nascita miracolosa di San Giovanni Battista (in lingua araba Yaḥyā), così come non mancherebbero altri brani di derivazione talmudica, antico-testamentaria, neo-testamentaria.

Nel 1972, durante i lavori di restauro della Grande Moschea di Ṣanʿāʾ, capitale dello Yemen, alcuni operai scoprirono per caso un’intercapedine tra il soffitto interno e quello esterno dell’edificio. Si trattava di una “tomba delle carte”, cioè una “sepoltura” di vecchi testi religiosi ormai in disuso e che per il loro carattere sacro non è permesso distruggere: una pratica in uso anche nel mondo ebraico, come dimostrato dai documenti della “Gheniza dei Palestinesi” di Fusṭāṭ studiati da Shlomo Dov Goitein. A Ṣanʿāʾ ci si imbatté in una quantità considerevole di antiche pergamene e documenti più o meno rovinati dal tempo, umidità, topi e insetti.
Nel 1979, su richiesta di Qāḍī Ismāʿīl al-Akwāʾ, allora Presidente dell’Autorità per le Antichità Yemenite, uno studioso tedesco, Gerd-Rüdiger Puin, della Universität des Saarlandes, cominciò a lavorare sul materiale ritrovato. Scoprì che alcune pergamene, risalenti al 680 circa, risultavano essere frammenti del più antico Corano esistente. Da analisi più approfondite cominciarono a emergere alcuni elementi interessanti: oltre che scarti dalla versione standard del Corano (“In ogni pagina le differenze con la vulgata coranica sono una decina”, sostiene Puin) e un ordine dei versetti non convenzionale, si può notare con chiarezza la presenza di nuove versioni, riscritte sopra quelle precedenti. Tuttavia, con il tempo il clamore nei confronti dei manoscritti di Ṣanʿāʾ è rientrato: eccettuate alcune differenze minori, come un diverso ordine di alcune sure (che nel Corano non sono disposte in ordine cronologico, ma grosso modo di lunghezza), variazioni minori del testo e abbellimenti stilistici, i manoscritti di Ṣanʿāʾ aderiscono sostanzialmente con il Corano giunto ai giorni nostri.

Il lavoro di restauro sui manoscritti ha portato alla sistemazione di oltre 15.000 fogli presso la Dār al-Makhṭūṭāt (Casa dei Manoscritti) dello Yemen: lo studioso, coadiuvato dal suo collega H.C. Graf von Bothmer, si limitò però a catalogare e classificare i frammenti, pubblicando solo qualche breve osservazione critico-contenutistica sul valore della scoperta, per timore che le autorità yemenite vietassero ogni ulteriore accesso. Ad altri studiosi, in effetti, non sono stati rilasciati i permessi necessari per visionare i manoscritti. Le affermazioni di Puin sono però state smentite da Sergio Noja Noseda, uno studioso italiano, e dall’archeologo francese Christian Robin che hanno affermato di aver avuto pieno accesso al sito, e di aver scattato numerose foto. Anche Ursula Dreibholz, responsabile del progetto di restauro, ha confermato il sostegno garantito delle autorità yemenite. Viene inoltre fatto notare che il sito venne visitato da non arabisti quali François Mitterrand, Gerhard Schröder, il Principe Claus di Olanda e da delegazioni straniere e autorità religiose. A convincere poi il Presidente della Germania federale a finanziare il progetto di restauro furono alcuni studiosi tedeschi.
Tale scoperta, se da un lato invalida il concetto di immutabilità del Corano, postulato dai musulmani dopo i contributi di Aḥmad b. Ḥanbal nel IX secolo e imposto come dogma solo dopo l’avvio del califfato di al-Mutawakkil (847-861), dall’altro lato ha contribuito però a mettere alquanto in crisi anche l’ipotesi avanzata a fine anni settanta del XX secolo dallo studioso britannico John Wansbrough. Questi fu il capofila di una serie di studiosi per i quali il testo coranico e, di fatto, gli assetti giuridico-religiosi dell’Islam in genere, sarebbero stati concepiti e portati a realizzazione in una fase assai più avanzata rispetto al VII secolo e, più esattamente, non prima del II secolo del calendario islamico, equivalente all’VIII/IX secolo della nostra era.
Altri studiosi fanno però notare che, stante la sostanziale aderenza dei manoscritti di Ṣanʿā al testo coranico, l’assunto riguardante l’immutabilità dello stesso non solo rimane valido, ma si rafforza, per via della consapevolezza che testi più antichi di quelli di ʿUthmān non abbiamo in realtà differenze sostanziali con quelli moderni.
L’ipotesi si basava sull’oggettiva tarda comparsa della produzione scritta, attestata solo a partire dal II secolo islamico, al quale risale il primo manoscritto, pervenutoci in uno standard compiuto della lingua araba, fino a quel momento rimasta a uno stadio di rudimentalità, pur in presenza di una estrema raffinatezza della lingua parlata, specialmente poetica. Ciò era stato causato dal protratto permanere di irrisolte storture morfologiche della scrittura che, tra l’altro, non era stata a lungo in grado di distinguere fra loro interi gruppi di grafemi, fin quando infine si poté ovviare (probabilmente grazie al contributo di convertiti provenienti dalla cultura siriaca, ebraica e persiana mazdea), col ricorso a una distinta puntuazione delle consonanti, tale da consentire infine un percorso intellettivo senza incertezze da parte del lettore.

La sura Aprente nella prima edizione comparsa in Italia (a Venezia) nel 1537

Malgrado i musulmani considerino che qualsiasi traduzione dal testo arabo del Corano non possa evitare d’introdurre – in quanto traduzione – elementi di ambiguità se non di vero e proprio travisamento semantico, e siano pertanto tendenzialmente sfavorevoli a qualsiasi versione del loro testo sacro in idioma diverso da quello originale, l’estrema esiguità dei musulmani arabofoni (all’incirca il 10% dell’intera popolazione islamica mondiale) ha condotto ad approntare traduzioni nelle più diverse lingue del mondo anche islamico: dal persiano al turco, dall’urdu all’indonesiano, dall’hindi al berbero. La prima traduzione completa del Corano fu completata nell’884 ad Alwar (Sind, oggi Pakistan) per disposizione di ʿAbd Allāh b. ʿUmar b. ʿAbd al-ʿAzīz, su richiesta del Raja hindu Mehruk. Non si sa tuttavia se detta traduzione fosse in hindi, sanscrito o nel locale linguaggio del Sind, dal momento che l’opera non ci è pervenuta.

Famosa è invece la traduzione in lingua latina commissionata da Pietro il Venerabile, abate di Cluny, a Roberto di Ketton (o Robertus Ratenensis) e a Ermanno Dalmata, cui partecipò anche l’ebreo convertito al Cristianesimo Petrus Alfonsi. Il lavoro fu completato nel 1143 ed ebbe duratura fortuna perché su di esso fu costruita la traduzione approntata da Bibliander e pubblicata a Basilea nel 1543.
Quattrocento anni dopo la traduzione cluniacense, giunse nel 1537-38 il lavoro stampato a Venezia (presso la stamperia Ad signum putei) da Paganino de Paganini da Brescia. Quest’ultima impresa traduttoria è di particolare interesse per le complesse vicende ad essa connesse. Non sappiamo se essa fosse stata commissionata dagli Ottomani o se (ancora una volta) il Corano dovesse servire ai sacerdoti nella loro opera missionaria o per la confutazione comunque del libro sacro dell’Islam ma si accertò che la traduzione latina era talmente zeppa di errori e di grossolani travisamenti, da essere probabilmente ritirata e fatta bruciare per disposizione di Papa Paolo III. Più tardo, a lungo rimasto un classico ancor oggi fruibile, è il lavoro di Ludovico Marracci (Padova, 1691-1698), che dette alle stampe la sua traduzione a Padova solo nel 1698, dopo quarant’anni di studio solerte e approfondito del Corano e di molte fonti arabe.

Per quanto riguarda la lingua italiana, il Corano fu per la prima volta proposto in volgare toscano nel 1547 a Venezia dal fiorentino Andrea Arrivabene, anche se l’opera fu preceduta da quella allestita da un tal Marco, canonico della Cattedrale di Toledo, che la curò tra il 1210 e il 1213. Di essa rimane un lacerto, scoperto, studiato ed edito da Luciano Formisano, dell’Università di Bologna, che l’ha rinvenuto all’interno del fiorentino codice Riccardiano 1910: autografo di Piero di Giovanni Vaglienti (Firenze, 1438- post 15-7-1514).

Al XX secolo vanno invece riferite le versioni di studiosi di vaglia quali Luigi Bonelli, Martino Mario Moreno, Alessandro Bausani e, da ultimo, Ida Zilio Grandi, che si è avvalsa della competenza di Alberto Ventura (un allievo di Bausani) e di Amir Moezzi. La traduzione di Bausani, considerato tra i massimi islamisti italiani, è tuttora quella più diffusa tra gli studiosi non musulmani, malgrado la prima edizione risalga al 1955, oltre mezzo secolo prima cioè di quella, senz’altro soddisfacente, edita dalla Mondadori. Se ne contano numerose altre, di diversa qualità scientifica, spesso tradotte da musulmani che sono stati mossi all’impresa dalla loro convinzione che le traduzioni scientifiche anzidette fossero comunque tendenzialmente fuorvianti, proprio perché curate da orientalisti non musulmani, senza peraltro poter sfuggire anch’essi alle critiche di fondo di chi sostiene l’inevitabilità dell’adagio “traduttore traditore”.

In particolare la traduzione di Hamza Roberto Piccardo, editore italiano convertito all’Islam, è di gran lunga la più diffusa nelle moschee e nei centri islamici italiani, essendo promossa e revisionata dall’UCOII. Secondo il giornalista (ora politico) arabo Magdi Allam, convertitosi per qualche tempo al Cattolicesimo dal natio Islam, prima di entrare in aperto contrasto con la politica vaticana, la versione di Piccardo sarebbe caratterizzata da “terrificanti commenti anticristiani, antiebraici, antioccidentali e lesivi della piena dignità della donna e, più in generale, dei diritti fondamentali della persona” e questo non farebbe che istigare all’odio e alla violenza i musulmani italiani, sfavorendo la pacifica convivenza tra persone di fedi diverse. Un esempio delle differenze tra le due correnti di pensiero (occidentale e orientale) nelle traduzioni è contenuto nel successivo paragrafo.

Versetti riferiti a pagani, cristiani ed ebrei

«Guidaci per la retta via, / la via di coloro sui quali hai effuso la Tua grazia, la via di coloro coi quali non sei adirato, la via di quelli che non vagolano nell’errore!»
(Corano, I:6-7)

«Uccidete dunque chiunque vi combatte dovunque li troviate e scacciateli di dove hanno scacciato voi, ché lo scandalo è peggiore dell’uccidere ; ma non combatteteli presso il Sacro Tempio, a meno che non siano essi ad attaccarvi colà: in tal caso uccideteli. Tale è la ricompensa dei Negatori.»
(Corano, II:191)

«Ma quelli che credono, siano essi ebrei, cristiani o sabei, quelli che credono cioè in Dio e nell’Ultimo Giorno Ie operano il bene, avranno la loro mercede presso il Signore, e nulla avran da temere né li coglierà tristezza.»
(Corano, II:62)

«Vi diranno ancora: “Diventate ebrei o cristiani e sarete ben guidati!” Ma tu rispondi: “No, noi siamo della nazione di Abramo, ch’era un ḥanīf e non già un pagano”.»
(Corano, II:135)

«E in verità, presso Dio, Gesù è come Adamo: Egli lo creò dalla terra, gli disse “Sii!” ed egli fu.»
(Corano, III:59)

«E chiunque desideri una religione diversa dall’Islàm, non gli sarà accettata da Dio, ed egli nell’altra vita sarà tra i perdenti.»
(Corano, III:85)

«e per aver detto: “Abbiamo ucciso il Cristo, Gesù figlio di Maria, Messaggero di Dio”, mentre né lo uccisero né lo crocifissero, bensì qualcuno fu reso ai oro occhi simile a Lui (e in verità coloro la cui opinione è divergente a questo proposito, son certo in dubbio né hanno di questo scienza alcuna, bensì seguono una congettura, ché, per certo, essi non lo uccisero / ma Iddio lo innalzò a sé, e Dio è potente e saggio.»
(Corano, IV:157-158)

«In verità Noi abbiamo rivelato la Tōrāh, che contiene retta guida e luce, con la quale giudicavano i Profeti tutti dati a Dio tra i giudei,e i maestri e i dottori con il Libro di Dio, di cui era stata loro affidata la custodia, e di cui erano testimoni. Non temete dunque questa gente, ma temete Me e non vendete i Miei Segni a vil prezzo! Coloro che non giudicano con la Rivelazione di Dio, son quelli i negatori.»
(Corano, V:44)

«E facemmo seguir loro Gesù, figlio di Maria, a conferma della Tōrāh rivelata prima di lui, e gli demmo il Vangelo pieno di retta guida e di luce, confermante la Tōrāh rivelata prima di esso, retta guida e ammonimento ai timorati di Dio. / Giudichi dunque la gente del Vangelo secondo quel che Iddio ha ivi rivelato, ché coloro che non giudicano secondo la Rivelazione di Dio, sono i perversi. / E a te abbiamo rivelato il Libro secondo Verità, a conferma delle Scritture rivelate prima, e a loro protezione. Giudica dunque fra loro secondo quel che Dio ha rivelato non seguire i loro desideri a preferenza di quella Verità, che t’è giunta. A ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via, mentre, se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una Comunità Unica, ma ciò non ha fatto, per provarvi in quel che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone, ché a Dio tutti tornerete, e allora Egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia.»
(Corano, V:46-48)

«Ma coloro che credono, e i giudei, e i sabei e i cristiani (quelli che credono in Dio e nell’Ultimo Giorno e che operano il bene) nulla han essi da temere,e non saranno rattristati.»
(Corano, V:69)

«Certo sono empi quelli che dicono: “Il Cristo, figlio di Maria, è Dio” mentre il Cristo disse: “O figli di Israele! Adorate Dio, mio e vostro Signore”. E certo chi a Dio dà compagni, Dio gli chiude le porte del paradiso: la sua dimora è il Fuoco, e gli ingiusti non avranno alleati.»
(Corano, V:72)

Controversa è l’interpretazione di chi sarebbero gli “incorsi nell’ira di Dio” e gli “sviati”, nel versetto 7 della prima sura, (al-Fātiḥa, “l’Aprente“.) Piccardo, nel suo commento, sostiene come “tutta l’esegesi classica, ricollegandosi fedelmente alla tradizione, afferma che con questa espressione Allah indica gli ebrei (yahūd)“. Quindi gli ebrei sarebbero “coloro che sono incorsi nella Tua ira”, non avendo riconosciuto come profeta ʿĪsā (Gesù); i cristiani sarebbero invece “gli sviati”, in quanto trasgrediscono il Primo Pilastro dell’Islam (vedi: Cinque pilastri dell’Islam), quello dell’unicità di Allāh, poiché adorano la Trinità.

Studiosi occidentali invece si oppongono a un’interpretazione così “personalizzante” del versetto, giacché riferendosi esplicitamente a ebrei e cristiani sminuirebbe il valore universale del Libro. Si preferisce quindi riferirsi a due possibili errori nel seguire la Via, concettualmente opposti: uno, quello riconducibile alla maggior parte degli ebrei, sarebbe quello di perdersi in un astratto ed eccessivo formalismo nell’ubbidire al Messaggio Divino, l’altro, quello riconducibile alla maggior parte dei cristiani, sarebbe quello al contrario di seguire troppo lo spirito della Legge e non il suo dettato formale (antinomismo) e di fatto perdere la Via.

In particolare Bausani, nel suo commento, sostiene che “tali interpretazioni, oltre a diminuire il valore universalistico della bella preghiera […] sono anche difficilmente accettabili sintatticamente, data la forma negativa nella quale le espressioni suddette appaiono nel testo“. Da altre parti del Corano risulterebbe inoltre che ebrei e cristiani avrebbero corrotto (cioè modificato volontariamente) le Rivelazioni precedenti, nascondendo alcune parti, modificandone altre (ad esempio, secondo il Corano, la frase evangelica “Verrà il Consolatore” nel Vangelo di Giovanni profetizzerebbe la venuta di Maometto). Non esistono versetti che esortino a uccidere o a convertire con la forza i politeisti (mushrikūn), un cui sinonimo nel Corano è “idolatri”. Per tutti costoro si reitera più volte la minaccia di tremendi castighi, riservati però loro da Allāh solo nell’Aldilà. Le uniche esortazioni a combattere gli “associatori”, i “negatori” e i politeisti e a ucciderli, come si può esemplarmente leggere nei versetti 190 e 191 della Sura II,

«Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, ché Allah non ama coloro che eccedono. Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti.»
(Corano, II:190-191)

si trovano di fatto solo nei consimili passaggi riguardanti il “jihād minore”, che storicamente il testo sacro sembra riferire alle azioni ostili che, fin dall’inizio della vita della Comunità organizzata da Maometto a Medina, contrapposero i nemici pagani della Umma islamica ai musulmani. Fra i miscredenti non sono in ogni caso da annoverare gli appartenenti alla “Gente del libro” (Ahl al-Kitab), ovvero i cristiani, gli ebrei e i sabei, che sono considerati custodi di una tradizione divina precedente al Corano che, per quanto alterata da tempo e uomini, è ritenuta comunque basilarmente valida, anche se per difetto.

Ponendosi come Terza Rivelazione dopo la Torah e i Vangeli (Injīl), ovvero come completamento del Messaggio trasmesso a ebrei e cristiani, il Corano contiene diversi riferimenti ai personaggi della Bibbia e a tradizioni ebraiche e cristiane. Sulla figura di Gesù in particolare il Corano ricorda dottrine gnostiche e docetiste, sostenendo che sulla croce sarebbe stato sostituito con un sosia o con un simulacro, solo apparentemente dotato di vita.

La nascita di Maometto. Miniatura di un manoscritto ottomano del Siyar-i Nebi (vita del Profeta). Il tendenziale aniconismo islamico porta a velare assai spesso il volto del Profeta dell’Islam. In questo caso lo zelo del miniaturista ha coinvolto anche la madre, ma non gli angeli.

Il Corano è foriero di alcuni elementi fondamentali dell’Islam: rigoroso monoteismo senza termini mediani fra Dio creatore e l’universo creato; una provvidenza divina che si estende ai singoli individui; un’immortalità personale con un’eternità di felicità o di dolore a seconda della condotta tenuta nella vita terrena. La filosofia greca, che i musulmani conobbero dai siriaci e dai persiani, presentava invece un sistema dottrinario caratterizzato da una complessa tematica scientifica e dal razionalismo aristotelico, aspetti estranei alla precettistica coranica. Le correnti filosofiche musulmane, nate almeno un secolo prima della Scolastica occidentale, si divisero nell’accordo, spesso difficile, tra Corano e approccio filosofico razionalizzante. I mutakallimūn (“coloro che disputano”, i “dialettici”) erano fedeli all’approccio coranico e sostenevano l’eternità del kālam (Parola) divino; i Mu’taziliti (“coloro che si allontanano”), pur con un preciso intento religioso, rappresentavano nei fatti una sorta di razionalismo e affermavano l’espressione nel tempo umano della Parola divina. I Fratelli della Purità elaborarono in una poderosa “Enciclopedia” (secolo X) tutti i motivi fondamentali della metafisica che erano trattati negli scritti pseudo-aristotelici (De Causis, Theologia Aristotelis); i sufi attinsero al pensiero del Neoplatonismo, elaborando una dottrina caratterizzata da un preciso afflato mistico. Grandi filosofi e scienziati furono poi al-Kindi, al-Farabi, Avicenna, Averroè e al-Ghazali

L’edizione più voluminosa venne pubblicata da DeaPrinting Officine Grafiche di Novara (ex gruppo De Agostini) per il presidente del Tatarstan (Russia), Rustam Minnichanov. È infatti alto 2 metri e pesa cinque quintali, di cui 120 chili di sola copertina e sarà esposto in una moschea appositamente costruita a Kazan’ (Russia).

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