

Il mito della creazione dell’uomo non è centrale nella mitologia greca, assai più interessata a descrivere le relazioni, sempre conflittuali e appassionate, tra divinità ed esseri umani. Scartabellando la vastissima letteratura classica, non si fatica a trovare accenni a molti distinti motivi antropogonici, evidente risultato di una complessa stratificazione di miti e leggende, ed è arduo riuscire trarne un quadro unitario. Manca in Grecia, ancor più che in Mesopotamia, un racconto «canonico», che possa fungere da guida attraverso le frastagliate contraddizioni del corpus mitologico ellenico. E se da un lato la cosa è meno perdonabile, vista la maggiore coerenza linguistica e culturale che la Grecia presenta rispetto alla sovrapposizione di popoli dell’antico Medio Oriente, dall’altro, la presenza, nel mondo ellenico, di tante distinte tradizioni in competizione tra loro, rende la nostra analisi assai più interessante. Scartabellando il materiale greco, rinveniamo molte distinte modalità sul modo in cui l’uomo venne ad esistere:
- I primi uomini spuntano dal suolo, figli della madre terra Gê. È una tradizione di origine pre-ellenica, attestata in diverse versioni regionali (in Beozia, ad esempio, si diceva che Alalkomeneús fosse stato il primo uomo a scaturire dalla terra; in Arcadia, Pelasgós era emerso dal suolo già prima che in cielo splendesse la luna; a Eleusi il primo uomo a sorgere dalla terra fu Dysaúlēs, etc.), come testimonia Hippolytus Romanus (Refutatio Omnium Heresium [V: vi: 3]). Secondo una notizia riferita da Plátōn, gli ateniesi si ritenevano autoctoni del fertile suolo attico, dal quale affermavano di essere spontaneamente scaturiti (Menéxenos [237d-237e]).
- Gli uomini nascono dalle pietre. Variante del precedente mitema, attestata nel mito di Deukalíōn e Pýrrha, dove le pietre sono le «ossa» della madre terra.
- Gli uomini si originano dagli alberi. Hēsíodos afferma che Zeús trasse la stirpe violenta dell’età dell’oro dai frassini (Érga kaì Hēmérai [143-148]). È un mitema di probabile origine indoeuropea, almeno a giudicare dai motivi omologhi attestati in Īrān e in Scandinavia.
- Gli uomini vengono plasmati nella terra, inumidita con l’acqua, per opera di uno o più demiurghi. A effettuare l’operazione è di solito Promētheús, ma possono comparire nel ruolo anche Hḗphaistos, Athēnâ o lo stesso Zeús. Di probabile origine medio-orientale, è il mitema più diffuso presso gli autori antichi.
- Tra le varianti minori, ricordiamo la nascita degli Spartoí da una seminagione di denti di drago, attestata nel mito di Kádmos, e quella del popolo dei Myrmidónes, creato da Zeús a partire dalle formiche dell’isola di Egina.
In questa straordinaria varietà di fantasie antropogoniche, quella che interessa a noi è l’operazione demiurgica, nella quale un dio plasma i primi uomini a partire dalla terra, inumidita nell’acqua o seccata dal fuoco. Il mito greco assegna questo compito a uno dei personaggi più misteriosi e affascinanti del mito greco, Promētheús.

È la penna leziosa di Ovidius a fornirci il paradigma di sette secoli di speculazione mitologica. Certo, siamo nel periodo augusteo, alla fine del percorso mitografico classico. Il mito è ormai diventato materia per artisti, e Ovidius ci gioca senza nemmeno più crederci. Rimane tuttavia la consapevolezza, fortissima, che la creta umana debba possedere un quid impalpabile, e con un colpo di genio Ovidius fa arrivare la scintilla divina al prototipo umano mescolando l’impasto terreo con l’acqua pluviale, che ancora contiene in sé la natura soprannaturale dell’etere celeste. Che nel mito classico l’uomo sia creato a «immagine divina» [in effigiem deorum], ci stupisce molto meno: è anzi, un divertente rovesciamento logico, visto che i Greci, prima dei Romani, avevano disegnato le loro divinità con spiccati tratti antropomorfi. Un secolo e mezzo più tardi, il siriano Loukianós Samosateús (120-180/192) affronta il racconto antropogonico con piglio irriverente, e così imbastisce l’autodifesa di Promētheús, a cui gli dèi contestano il «delitto» di aver voluto creare il genere umano, di cui non si sentiva affatto il bisogno.

Alla poesia leziosa di Ovidius, Loukianós oppone una penna intinta nel vetriolo. Scrittore piacevolissimo e intelligente, Loukianós utilizza l’antichissimo tema antropogonico a fini polemici, ma mostra di averne ben presenti gli addentellati mitici. È d’accordo con Ovidius sul fatto che gli uomini partecipino della natura divina, anche se nel caustico retore siriano non sono soltanto le facoltà razionali e spirituali, che gli uomini hanno in comune con gli dèi, ma anche la capacità di compiere misfatti e indulgere ai vizi. In un mondo che oppone uomini teomorfi a divinità antropomorfe, questo rapporto di «immagine e somiglianza» tra mortali e immortali copre l’intero spettro del nostro agire, sia in quel che ci riempie di orgoglio, sia in ciò di cui dovremmo vergognarci. Il secondo motivo, accennato in Ovidius ma meglio sviluppato in Loukianós, è che la presenza umana sia un ulteriore passo nel discorso cosmogonico. Che senso avrebbe avuto un mondo deserto e selvaggio? L’uomo può addomesticarlo con strade e città, civilizzarlo con edifici e giardini; colmarlo di letteratura, opere d’arte e poesia. I miti antichi non distinguono tra elementi naturali e culturali: il mondo presuppone allo stesso modo gli uni e gli altri. L’antropizzazione del territorio è il necessario punto di arrivo nel processo dal cháos al kósmos. Ma c’è ancora un altro punto, sul quale è bene insistere, sebbene sia assente in Ovidius e sia appena accennato in Loukianós: cosa sarebbe la divinità senza uno specchio in cui confrontarsi? Gli uomini sacrificano agli dèi. Senza il genere umano, gli dèi sarebbero rimasti privi di onori, offerte e sacrifici. Loukianós la prende alla lontana ma, come vedremo, il mito antropogonico greco – come quello mesopotamico – non fa che girare attorno a questo punto fondamentale.
PROMĒTHEÚS, IL DEMIURGO
Siamo partiti da Ovidius e Loukianós perché sono loro a tirare le somme della mitografia classica, in epoca tarda, e anche perché ci forniscono alcuni degli esempi letterariamente più completi del mito della creazione dell’uomo per mano di Promētheús. Ma questo racconto era affiorato più volte nel corso della sterminata letteratura greca e romana, a volte divenendo motivo centrale in opere di altissimo valore poetico o filosofico. Non è agevole fornire una cernita completa delle testimonianze letterarie su Promētheús, ma non si può trascurare di citare innanzitutto il ciclo di tragedie che gli dedicò Aischýlos (525-456 a.C.). Di tre, ci resta solo la prima, il Promētheús desmṓtēs («Promētheús incatenato»), dove il figlio di Iapetós è presentato come creatore, maestro e difensore dell’uomo. Plátōn (428/427-348/347 a.C.) prende spunto dal mito di Promētheús per trarne un interessante apologo sulla natura politica dell’uomo. Uomini e animali vengono creati insieme nel sottosuolo. Giunto il momento di farli emergere sulla superficie della terra, Epimētheús si offre di distribuire equamente le capacità tra tutte le specie, in modo da dare a ciascuna i mezzi adeguati per sopravvivere. Ma dopo aver operato un’attenta suddivisione, Epimētheús si accorge di aver esaurito tutte le qualità con gli animali e di aver lasciato gli esseri umani nudi e indifesi. Suo fratello Promētheús, dona allora agli uomini il fuoco e la téchnē, rubati rispettivamente ad Hḗphaistos e ad Athēnâ: per questo furto verrà punito. In seguito Zeús donerà agli uomini la sapienza politica, in modo da permettere loro di unirsi in gruppi sociali e collaborare per il comune vantaggio. (Prōtagóras [320c-320d]). Echi del mito compaiono in molte altre fonti: un frammento di Sapphṓ [207] e un altro di Kallímachos [493] si limitano a citarlo en passant. Il favolista Aísōpos (±620-±560 a.C.) ne effettua delle variazioni allegoriche [515 | 516 | 517 | 527 | 530 | 535]. Ma stiamo parlando di rielaborazioni letterarie, in cui il racconto prometeico viene piegato a fini poetici, polemici, drammaturgici, filosofici, moralistici. Nessuna di queste fonti riferisce il racconto nella sua nudità «originale». Unico mitografo, Apollódōros risolve il mito antropogonico in due sole righe:

Nient’altro. Ma che il mito demiurgico su Promētheús fosse ben conosciuto a livello popolare, lo attesta il geografo Pausanías (110-180), con una deliziosa indicazione turistica: a Panopeús, nella Focide, si potevano ammirare due macigni argillosi, del colore e del profumo della pelle umana; la gente del luogo affermava fossero il residuo dell’impasto utilizzato da Promētheús per modellare i primi uomini (Periḗgēsis [X: 4]). Nonostante le numerose citazioni e rielaborazioni che s’inseguono in un millennio di letteratura classica, il racconto demiurgico su Promētheús sembra mancare di una versione principale. Gli autori greco-latini non fanno che rifarsi a una tradizione comune e diffusa, ma non abbiamo una Urquelle, una fonte primaria, originale. Se risaliamo fino all’epoca pre-classica, quando la letteratura e la filosofia greca sono ancora a stento distinguibili dal substrato mitologico, il mito antropogonico si fa vago, evanescente, e ci scompare tra le dita. Escluso Hómēros, assai più interessato alle imprese dei suoi re e guerrieri, rimane Hēsíodos, nostra unica guida in questi stadi antichissimi. È con Hēsíodos che i miti ellenici assumono la configurazione destinata a divenire canonica per la civiltà occidentale. E Promētheús è un personaggio chiave nei due libri di Hēsíodos, per quanto non venga mai presentato come creatore dell’uomo. La porta per entrare nel mondo esiodeo è un verso degli Érga kaì Hēmérai, le «Opere e i giorni», dove leggiamo che…

I primi tre dèi della stirpe olimpica, Zeús, Poseidôn e Aḯdēs, erano figli di Krónos, il più giovane dei Titânes. Il racconto viene sviluppato da Hēsíodos nell’altra sua opera, la Theogonía, dove Zeús sconfigge i Titânes in un’apocalittica battaglia, e, spodestato il padre Krónos, diviene il nuovo re dell’universo. A questo punto, affidandosi alla sorte, Zeús divide la potestà sull’universo con i suoi fratelli, e ciascuno prende possesso della sua timḗ, in una scena calma e maestosa:

Se al lettore cominciano a fischiare le orecchie, ne ha ben donde: non avevamo forse letto una scena simile nell’Enûma ilû awîlum, anzi, talmente vicina al testo greco, da rappresentarne un calco impressionante? I tre maggiori dèi, anch’essi tirando le sorti, si dividono la potestà sulle sfere cosmiche che costituiscono l’universo:

Sappiamo come prosegue il mito mesopotamico: Anu e il suo seguito salgono in cielo, Enki e il suo corteo scendono nell’Apsû, Enlil diviene signore della terra; quindi gli Anunnaki impongono agli Igigi il canestro del lavoro, al fine di produrre la materia prima per i sacrifici. In seguito questi ultimi si ribellano ed Enki, dopo aver sacrificato uno degli Igigi, impasta il suo sangue alla creta e crea l’uomo affinché si sobbarchi il mantenimento gli dèi. La Theogonía esiodea mette in scena un’analoga serie di rapporti di potere, risolvendoli in vario modo. Zeús usa dapprima la forza contro i Titânes e, dopo averli sconfitti, li scaraventa nel Tártaros; si affida poi a un tiro di astragali per dividere le timaí con i suoi fratelli. Se il secondo motivo deriva direttamente dal tema mesopotamico, la battaglia tra Olýmpioi e Titânes sembra derivare da un mitema differente: qui i collegamenti sono piuttosto indoeuropei. Nello schema, tuttavia, la titanomachia occupa la nicchia che in Mesopotamia è assegnata alla ribellione degli Igigi. A questo punto, il mito paleobabilonese metteva in scena la creazione dell’uomo. Il racconto ellenico sembra prendere una strada diversa… ma non fermiamoci all’apparenza. Ricordiamoci dell’affermazione di Hēsíodos: «uomini e dèi hanno la stessa origine». Affermazione destinata a rimanere ingiustificata, in quanto Hēsíodos, pur narrando delle primissime età del genere umano, è piuttosto reticente sui dettagli antropogonici. Non lo è tuttavia su molti altri elementi. Infatti, mentre da Krónos discendono gli Olýmpioi, suo fratello Iapetós è padre di Promētheús, il creatore del genere umano. Questo Iapetós non è che una trasparente ellenizzazione di Yāpẹṯ, uno dei tre figli di Noaḥ, biblico antenato delle stirpi elleniche e indoeuropee in generale. In un passo degli Oracoli Sibillini, testi apocalittici giudaico-ellenistici, composti tra il II e il I sec. a.C., la divisione del mondo in tre parti veniva effettuata tra i fratelli Krónos, Iapetós e Titán, dopo il crollo della torre di Babele (Oracula Sibyllina [III: 128-142]). Tale tradizione sembra fosse una versione ellenizzata del mito biblico di Šēm, Ḥām e Yāẹṯ, i quali si spartirono il mondo dopo il diluvio. L’andamento della Theogonía non è sempre consequenziale: Hēsíodos si muove avanti e indietro, svolgendo i molteplici fili delle sue genealogie; sovente usa la tecnica dell’hýsteron próteron, raccontando i fatti a partire dalle loro conseguenze, rendendoci difficile il compito di disporre gli eventi in un sicuro percorso cronologico. È il caso della titanomachia. Quando Titânes e Olýmpioi sono sul punto di ormai scagliarsi gli uni contro gli altri, e il lettore è carico nella spasmodica attesa della grande battaglia, Hēsíodos si blocca, cambia discorso e, agguantato un altro dei suoi innumerevoli fili, si mette a parlarci della discendenza di Iapetós. E che discendenza! Quattro figli, tutti quanti eccessivi nella loro ambizione, forza, sottigliezza o imprevidenza; tutti situati ai margini dell’ordine cosmico, se non apertamente ribelli.

I figli di Iapetós sono destinati tutti, in un modo o nell’altro, a venire puniti, o a divenire essi stessi strumenti di punizione. Átlas verrà condannato a sostenere il cielo sulle spalle, sembra in punizione di aver guidato i Titânes nella battaglia contro gli Olýmpioi; Menoítios cadrà fulminato dallo stesso Zeús a causa della sua arroganza e scelleratezza; Promētheús finirà incatenato alle rocce del Caucaso, Epimētheús verrà indotto ad accettare il «male» costituito dalla prima donna, una condanna destinata a ripercuotersi su tutto il genere umano. Ma non anticipiamo il nostro dramma, e procediamo un passo alla volta. È una strana coppia contrastiva, quella costituita da Promētheús ed Epimētheús. Due personaggi dai nomi parlanti: il «preveggente» e il «postveggente», il primo presentato fin da subito come «versatile» [poikílos] e «astuto» [aiolómētis], il secondo «senza senno» [amartínoon]. Stando ad Aischýlos, Promētheús fu stratega di Zeús durante la titanomachia, e possiamo immaginare quali preziosissimi servigi gli abbia recato nel corso della battaglia, contribuendo alla sua vittoria finale. Ma mentre la tragedia di Aischýlos insiste su questi dettagli, Hēsíodos li ignora per concentrarsi su un episodio «minore»: quello del sacrificio di Mēkṓnē (è questo l’antico nome della città di Sikyônos/Sicione, nel nord del Peloponneso).
L’incipit è enigmatico:

Una contesa tra dèi e uomini mortali? Di cosa stiamo parlando? Il problema non è da poco, tantopiù che, fino ad ora, la Theogonía è stata tutto un susseguirsi di generazioni titaniche e divine: non si era mai parlato di esseri umani. È solo negli Érga kaì Hēmérai che Hēsíodos ci assicurerà sul fatto che essi esistevano già all’epoca di Krónos. La Theogonía dà per scontata la loro esistenza, e se ne ricorda d’un tratto. Giunto al punto in cui Olýmpioi e Titânes stanno ormai per scagliarsi gli uni contro gli altri, nella grande battaglia che deciderà il destino dell’universo, Hēsíodos interrompe il racconto e, lasciandoci con il fiato sospeso, inizia la non breve divagazione del sacrificio di Mēkṓnē, e la inizia in modo abrupto, dando tutte le premesse per scontate. A questa ignota contesa tra dèi e uomini mortali accenna forse Aischýlos, nel suo Promētheús desmṓtēs, in cui il titán afferma di essere intervenuto per salvare gli uomini da Zeús, che voleva sterminarli.

Sappiamo poco o nulla su questo mito, che pure ha un riscontro nel seguito dell’Enûma ilû awîlum, dove il crudele Enlil tenta di distruggere a più riprese il genere umano, ma Enki riesce ogni volta a salvarlo. Il braccio di ferro tra le due divinità, che ha per posta la sopravvivenza umana, culmina, sia in Mesopotamia che in Grecia, nel diluvio universale, scatenato rispettivamente da Enlil e da Zeús, e nel quale tutta l’umanità viene annegata. Ma di nuovo, saranno Enki e Promētheús, nei rispettivi miti, a suggerire ai due noè della situazione (Atraḫasîs e Deukalíōn) di costruire un’arca per salvarsi. Ma tratteremo in altra sede del diluvio: ci preme ora sapere con quali argomenti Promētheús abbia potuto convincere Zeús a risparmiare il genere umano. Gli argomenti in realtà sono abbastanza ovvi. Sono già presenti nella brillante autodifesa che Loukianós mette in bocca a Promētheús, nel suo Promētheús ē Kaúkasos, ma anche nelle antropogonie mesopotamiche: gli uomini sono indispensabili agli dèi in quanto tributano loro un culto e li nutrono con offerte e sacrifici. Ed è con un ovvio sacrificio che Atraḫasîs si riappacifica con Enlil, dopo il diluvio; e Nōaḥ non si comporterà in maniera differente nel mito ebraico. Ma a ben guardare, c’è in atto un sacrificio anche a Mēkṓnē, e sembra posto a chiusura dell’enigmatica «contesa» tra uomini e dèi, contesa di cui Hēsíodos non specifica la natura. Quel che gli interessa è che Promētheús sia stato chiamato a officiare al sacrificio.

Promētheús esegue per la prima volta gli stessi gesti che i Greci ripeteranno sui loro altari nei secoli a venire. Il bue viene abbattuto e scuoiato. Le ossa delle zampe, i cosiddetti ostéa leuká, vengono accuratamente spolpati. Dopodiché, l’astuto titân fa un bel mucchietto delle ossa del bue e lo copre con uno strato di grasso, bianco e appetitoso. Poi, raccoglie tutti i kréa, le carni commestibili, staccate dalle ossa, e le mette dentro la gastḗr, lo stomaco del bue, viscido e poco gradevole a vedersi. Sono queste le due porzioni che il figlio di Iapetós pone dinanzi a Zeús, il quale nota quanto disuguale sia la suddivisione: è evidente che quel furbacchione di Promētheús ne ha escogitata una delle sue. Zeús lo spia beffardo, e Promētheús gli ricambia uno sguardo malizioso. Hēsíodos dirige la scena con mano lesta e sicura. Quando il titân offre a Zeús di scegliere, tra i due mucchi, quello che preferisce, il lettore sa subito cosa sta per accadere. Tra un attimo, il goloso re degli dèi sceglierà il pacco che gli appare più appetitoso ma, sotto lo strato di grasso, troverà solo un mucchio di bianche ossa. Così immancabilmente avviene:

E così immancabilmente è avvenuto. Ma Hēsíodos, invece di prendere la strada diritta, è avanzato per un sentiero irto di ambiguità. Zeús sapeva, aveva riconosciuto l’inganno. E allora perché ha scelto di cadere nel tranello? Suona sinistro quel preludio ai mali che Zeús «meditava dentro il suo cuore per gli uomini mortali». A gli uomini sono toccate invece le carni gustose e croccanti? «Che le mangino crude!» è la reazione di Zeús, che toglie il fuoco agli uomini, per punirli dell’inganno. Si diparte qui un altro grandioso racconto, ché Promētheús dovrà andare a rubare il fuoco agli dèi per restituirlo agli esseri umani: per punirlo, Zeús lo incatenerà alle rocce del Caucaso. Ma questo è un mitema differente, che dovrà essere affrontato separatamente. Il terreno di Mēkṓnē, su cui stiamo avanzando, è ben noto agli interpreti del mito, che lo hanno calcato ripetutamente per più di duemilacinquecento anni: eppure, conserva ancora i suoi enigmi, le sue asperità. Quello a cui abbiamo assistito – Hēsíodos lo dice chiaramente – è il mito di istituzione della pratica sacrificale. Da questo momento, per tutti i secoli a venire, gli uomini immoleranno bestie sugli altari: per gli dèi, saranno bruciate le ossa, mentre le parti commestibili verranno consumate dagli uomini. L’inganno di Promētheús si risolve, insomma, nelle modalità di istituzione dei sacrifici. L’umanità sarà legata, in Grecia come in Mesopotamia, al mantenimento degli dèi attraverso le pratiche cultuali. Ma questa è solo l’eziologia, il mito di istituzione del rapporto che, nei secoli a venire, legherà dèi e uomini nel reciproco vincolo dell’esistenza, con gli dèi che conservano i presupposti del kósmos e della vita, e gli uomini che mantengono in essere le divinità con offerte e sacrifici. Ma nell’iniqua spartizione del bue effettuata da Promētheús, viene tracciata una linea ancora più sottile, ed è quella che divide tra loro mortali e immortali. È un punto che Jean-Pierre Vernant ha opportunamente sottolineato: nella divisione tra ossa e carni, le une destinate agli dèi e le altre agli uomini, la parte peggiore è proprio la seconda. Le ossa sono infatti – al contrario delle carni – la parte indeperibile degli animali. Sono l’architettura del corpo, il loro archetipo immutabile ed eterno. Agli dèi basta annusarne il profumo, quando le ossa ingrassate bruciano sugli altari, per condurre un’esistenza immortale. Gli uomini no: gli uomini hanno continuo bisogno di alimentarsi, per mantenere la propria esistenza; gli uomini sono fatti di carne, si nutrono di carne; e al contrario delle ossa, la carne si decompone, è paradigma di natura mortale. Che agli uomini tocchi la parte commestibile del bue è indice dei bisogni e delle necessità della condition humaine. Nel fare le parti del bue, Promētheús tira una riga, dividendo per sempre mortali e immortali. Hómēros fa scorrere non sangue, ma una sostanza chiamata ichṓr, dal polso della dea Aphrodítē, ferita mentre tenta di salvare il figlio Aineías dalla furia di Diomḗdēs. E puntualizza:

Il pane e il vino sono dunque cibo degli uomini: l’alimentazione, a cui Promētheús condanna il genere umano, è ragione della loro mortalità. Questo dà una nuova profondità all’espressione, dal sapore quasi proverbiale, con cui Hēsíodos indica gli esseri umani: «uomini che mangiano pane» [andrói alphēsteîs] (Theogonía [512). Tale espressione non è una banale specificazione alimentare, ma oppone gli esseri mortali agli dèi che non hanno bisogno di nutrirsi con il nostro stesso cibo. Ploútarchos spiega il distico omerico in modo assai chiaro, sebbene un po’ razionalizzando: «[Il pane] non è solo un mezzo che contribuisce alla vita, ma è anche uno strumento di morte. È dal cibo infatti che si sviluppano le malattie che invadono il corpo…» (Moralia: Tôn heptà sophôn sympósion [16]). L’inganno di Promētheús si ripercuote sull’intero genere umano. La necessità di procurarsi giornalmente il cibo comporta l’inizio del lavoro e della fatica. Come gli uomini della Mesopotamia vengono creati per lavorare, al fine di mantenere gli dèi con i loro sacrifici, i loro affini, in Grecia, subendo l’inganno di un fraudolento sacrificio, si ritrovano condannati al medesimo fato. Il mondo diviene quello che noi conosciamo:

L’analisi del mito rischia di rivelarsi piuttosto intricata, per non dire ambigua. Se Promētheús è il «preveggente», come leggiamo sull’etichetta, perché il suo agire ai danni di Zeús si ripercuote poi sugli uomini mortali? E se Zeús era conscio del tranello, perché finge di caderci, per poi punire gli uomini? È difficile districarsi da questo gioco di cause ed effetti, che paiono contraddirsi le une con le altre. Hēsíodos ha risistemato dei miti antichissimi secondo le concezioni teologiche del suo tempo; sul canone esiodeo, gli autori successivi hanno sovrapposto le loro interpretazioni, rendendo la materia ancora più stratificata e complessa.

(Fonte: Bifrost.it)