
La navigazione spaziale ha un senso?
A che servono i miliardi investiti?
O guerra o volo spaziale
Che cosa dobbiamo dire dei tanto calunniati dischi volanti?
Già 60 anni fa c’è stata un’esplosione nucleare
La “luna” di Marte è un satellite artificiale?
Nei discorsi della gente riaffiora di continuo la domanda se il volo spaziale abbia un senso. Si sente spesso affermare che le ricerche spaziali sono in certo qual modo inutili, o magari del tutto assurde, e l’affermazione è motivata col banalissimo ragionamento che non si deve andare a esplorare lo spazio finché in terra restano tanti problemi insoluti. Cercando di non finire nel campo, incomprensibile per i profani, della dimostrazione scientifica, cercheremo qui di esporre solo alcuni solidi motivi, letteralmente a portata di mano, dell’assoluta necessità delle ricerche spaziali. La curiosità e la sete di sapere sono presenti nell’uomo fin dall’inizio, come stimoli potenti a una perpetua ricerca. Le due domande: perché questo avviene, e come avviene sono state in ogni tempo la forza motrice dell’evoluzione e del progresso. All’eterna inquietudine ch’esse creavano nell’animo umano noi dobbiamo la nostra civiltà e la nostra vita di oggi. I comodi mezzi di trasporto moderni ci risparmiano la fatica dei viaggi che ancora i nostri nonni dovevano affrontare; il duro peso del lavoro manuale è stato sensibilmente alleviato dalla macchina; nuove fonti d’energia, preparati chimici, frigoriferi, elettrodomestici di ogni genere ci hanno liberato completamente da molti faticosi lavori che prima dovevano essere per forza eseguiti a mano. Ciò che la scienza ha creato non è divenuto un male, ma una benedizione per l’umanità. E persino la sua creatura più spaventosa, la bomba atomica, sarà per l’uomo uno strumento di salvezza. Oggi la scienza percorre le sue tappe a passi da gigante. Per lo sviluppo della fotografia dovettero passare 112 anni prima che si potesse ottenere un’immagine servibile. Il telefono già dopo 56 anni era pronto all’uso, e nello sviluppo della radio bastarono soli 35 anni di ricerca scientifica per ottenere una ricezione ineccepibile delle trasmissioni. Per il perfezionamento del radar furono impiegati solo 15 anni. Le tappe delle grandi invenzioni e scoperte che cambiano la faccia del mondo divengono sempre più brevi: la televisione in bianco e nero era presentabile dopo 12 anni di ricerche, e la costruzione della prima bomba atomica richiese 6 anni. E queste sono solo alcune delle conquiste fatte in 50 anni di progresso tecnico, grandioso, e all’inizio spesso terrificante. Le fasi della nostra evoluzione ci porteranno sempre più rapidamente e sempre più direttamente allo scopo. I prossimi 100 anni realizzeranno una gran parte degli eterni sogni dell’umanità. Contro tutte le minacce e tutti gli ostacoli lo spirito umano si è aperto la sua via. Contro gli arcaici pregiudizi che l’acqua sia l’ambiente vitale dei pesci, l’aria l’elemento degli uccelli, l’uomo si è conquistato gli spazi che sembrava non gli spettassero. L’uomo vola, contro tutte le cosiddette leggi di natura, e coi sommergibili atomici vive per mesi e mesi sott’acqua. Con la sua intelligenza si è creato ali e branchie che a lui il Creatore non aveva destinato. Quando Charles Lindbergh partì per il suo volo leggendario, la sua meta era Parigi: ma naturalmente non gli importava di arrivare a Parigi, voleva soltanto dimostrare che l’uomo poteva da solo e incolume trasvolare l’Atlantico. La prima meta del volo spaziale è la Luna: ma questo nuovo progetto tecnico-scientifico vuol dimostrare che l’uomo può affrontare anche lo spazio. Perché dunque il volo spaziale? In pochi secoli il nostro globo si troverà irrimediabilmente e disperatamente sovrappopolato. Per l’anno 2050 le statistiche prevedono già una popolazione di 8,7 miliardi di uomini: 200 anni dopo si raggiungeranno i 50 miliardi, ossia su ogni chilometro quadrato dovranno vivere 335 uomini. Inconcepibile! Le teorie che ci propinano come tranquillanti su ipotetici cibi tratti dal mare o abitazioni costruite sul fondo marino si dimostreranno, più presto di quanto i più audaci ottimisti non pensino, mezzi del tutto inadeguati contro l’esplosione demografica. Sull’isola indonesiana di Lombok nei primi sei mesi dell’anno 1966 morirono di fame più di diecimila uomini, che nella loro disperazione avevano tentato di mantenersi in vita nutrendosi di lumache e di erbe. Il segretario generale dell’ONU, U Thant, calcola che in India vi siano 20 milioni di bambini minacciati dalla fame; sintomo significativo che mostra l’esattezza dell’affermazione del professor Mohler di Zurigo, secondo il quale la fame avanza verso il dominio del mondo. È dimostrato che la produzione mondiale di generi alimentari non sta al passo con l’incremento demografico, malgrado i più moderni sussidi tecnici e l’uso di fertilizzanti chimici. Il nostro tempo deve alla chimica anche i farmaci per il controllo delle nascite. Ma a che servono, se le donne dei paesi sottosviluppati non ne fanno uso? Solo se si riuscisse in 10 anni, ossia entro il 1980, a ridurre della metà il tasso di natalità, la produzione di generi alimentari potrebbe tenere il passo con l’aumento della popolazione. Purtroppo noi non possiamo aver fiducia in questa soluzione razionale, perché il fenomeno della sovrappopolazione avrà già raggiunto proporzioni disastrose prima che sia possibile infrangere il “muro del suono” dei pregiudizi, ossia dei cosiddetti motivi etici e principi religiosi. È forse più umano, o voluto da Dio, lasciar morire di fame un anno dopo l’altro milioni di uomini, piuttosto che risparmiare alle povere creature la sfortuna di venire al mondo? Ma anche se un giorno lontano, sotto la pressione di una necessità fatale, si dovesse imporre il controllo delle nascite, anche se le superfici coltivabili potessero essere ampliate e i raccolti accresciuti con mezzi che ancora non conosciamo, anche se la pesca venisse enormemente potenziata e i campi di alghe del fondò marino fossero sfruttati come nutrimento – anche se tutto questo, e altro ancora, accadesse, il risultato sarebbe solo un indugio, un rinvio di un centinaio d’anni. L’uomo ha bisogno di nuovo spazio vitale. Siamo convinti che gli uomini un giorno lontano si stanzieranno su Marte, e si adatteranno alle nuove condizioni climatiche come si adatterebbero gli eschimesi se si dovessero trasferire in Egitto. I pianeti saranno popolati dai figli dei nostri figli, che li raggiungeranno a bordo di gigantesche navi spaziali e colonizzeranno nuovi mondi, come in un recente passato furono colonizzate l’America e l’Australia. Per questo dobbiamo intensificare le ricerche spaziali! Dobbiamo lasciare in eredità ai nostri nipoti una possibilità di sopravvivere. Ogni generazione che vien meno a questo compito espone in un lontano futuro l’intera umanità alla morte di fame. Non si tratta più della ricerca astratta, che interessa solo lo scienziato. E chi è indifferente a un impegno per il futuro sappia che i risultati delle ricerche spaziali ci hanno già salvati dalla terza guerra mondiale. Non è forse vero che la minaccia del totale sterminio ha già trattenuto le grandi potenze dal decidere le loro divergenze d’opinione e i loro conflitti di potere con una grande guerra? I russi oggi non sono più obbligati a metter piede sul territorio americano per trasformarlo in deserto, né gli americani hanno bisogno di andare a morire in Russia, poiché dopo un bombardamento atomico la Terra diviene lo stesso inabitabile e infeconda per la radioattività. Può suonare assurdo, ma solo il missile intercontinentale ci ha assicurato una relativa pace. Qualche volta si sente anche esprimere l’opinione che i miliardi prodigati per le ricerche spaziali sarebbero meglio spesi in aiuti ai paesi sottosviluppati. Questa opinione è errata: le nazioni industriali non prestano aiuto ai paesi sottosviluppati solo per spirito caritatevole o per ragioni politiche, ma anche – ed è ben comprensibile – per aprire mercati alle industrie nazionali. L’aiuto richiesto dagli stati sottosviluppati è – visto nel tempo – irrilevante. Nell’anno 1966 vivevano in India a occhio e croce 1,6 miliardi di ratti, ognuno dei quali consuma all’anno circa cinque chilogrammi di generi alimentari. Tuttavia lo stato non può intervenire per sterminare questi pestiferi animali: l’indiano devoto protegge i ratti. Nella stessa India vagano per le strade 80 milioni di vacche, che non danno latte né servono come animali da tiro né possono essere macellate. In un paese il cui sviluppo fino ad oggi è stato ostacolato da tanti tabù e tante leggi religiose, ci vogliono ancora parecchie generazioni per spazzar via i riti, le usanze e le superstizioni nocive alla vita. Anche qui i mezzi di comunicazione dell’era spaziale servono al progresso e all’educazione delle masse: giornali, radio, televisione. Il mondo è diventato più piccolo: gli uomini si conoscono meglio fra loro. Ma per giungere all’ultima meta, al giorno in cui i confini nazionali appariranno relitti di un tempo passato, è necessaria la navigazione spaziale. La tecnica, da essa potenziata, diffonderà il concetto che la piccolezza dei popoli e dei continenti nel quadro dell’Universo deve essere impulso e incentivo al comune lavoro delle ricerche spaziali. In ogni epoca l’umanità ha avuto bisogno di una parola più alta, che al di sopra dei problemi immediati traducesse in realtà ciò che all’apparenza sembrava irraggiungibile. Un fattore assai importante, che nell’era dell’industrializzazione fornisce un argomento decisivo a favore della ricerca spaziale, è il sorgere di nuovi rami dell’economia, in cui centinaia di migliaia di uomini, i quali avevano perduto il loro posto di lavoro in seguito all’automazione dei processi di produzione, ritroveranno la possibilità di guadagnarsi il pane. La “industria spaziale” ha già superato negli Stati Uniti, come elemento determinante della congiuntura economica, l’importanza dell’industria automobilistica e siderurgica. Più di 4.000 nuovi articoli debbono la loro nascita alla ricerca spaziale, quasi come sottoprodotti della ricerca rivolta a una meta superiore, e sono entrati con la massima naturalezza nella vita quotidiana, senza che il consumatore se ne domandi l’origine. Calcolatori elettronici, mini trasmettitori e mini-ricevitori, transistor negli apparecchi radio e televisivi, sono tutte scoperte marginali fatte per caso lungo la via della ricerca, come le padelle in cui le pietanze non bruciano più anche senz’aggiunta di grasso. Gli strumenti di precisione che si trovano a bordo di ogni aeroplano, gli apparecchi di controllo completamente automatici, i piloti automatici e infine i computer che si stanno così rapidamente sviluppando sono tutti prodotti secondari della tanto calunniata ricerca spaziale, fanno parte di un programma di sviluppo che influenza anche la vita privata del singolo. E vi sono ancora una serie infinita di cose che il profano non immagina neppure: nuovi processi di lubrificazione e di saldatura sotto vuoto spinto, cellule fotoelettriche e nuove, minuscole fonti d’energia, capaci di superare infinite distanze. Dal gettito delle imposte che affluiscono alla ricerca spaziale, i profitti dei grandi investimenti di capitale rifluiscono in piccoli rivoletti al contribuente. Le nazioni che non prendono parte in alcun modo alla ricerca spaziale vengono schiacciate dalla virulenta rivoluzione tecnica. Nomi e concetti come Telstar, Echo, Relay, Trios, Mariner, Ranger, Syncom sono pietre miliari sulla via dell’incessante ricerca. Poiché le riserve d’energia della Terra non sono illimitate, il programma spaziale risulterà un giorno d’importanza vitale anche perché dovremo rifornirci di materiale fissile da Marte, da Venere o da un altro pianeta per poter illuminare le nostre strade e riscaldare le nostre case. Poiché le centrali atomiche forniscono già oggi l’energia più a buon mercato, la produzione industriale di massa sarà costretta a ricorrere a questi impianti quando la Terra non offrirà più materiale fissile. Ogni giorno si annunciano nuove conquiste scientifiche: la tranquilla tradizione del sapere acquisito, tramandato di padre in figlio, è tramontata per sempre. Un tecnico che debba riparare un semplice apparecchio radio a pulsante dev’essere esperto nella tecnica dei transistor e dei complessi circuiti di distribuzione, spesso soltanto stampati in materiale sintetico. E prima che sia passato molto tempo dovrà anche farsi una cultura sui nuovi minuscoli ingranaggi della microelettronica. Ciò che oggi impara da apprendista domani da operaio dovrà già integrarlo con nuove conoscenze. E mentre al tempo dei nostri nonni uno specialista possedeva una cultura sufficiente per tutto il resto della sua vita, lo specialista di oggi e di domani deve continuamente aggiungere nuove cognizioni a quelle già acquisite. Ciò che valeva ieri è oggi già superato. Il nostro Sole – anche se dovranno prima passare milioni di anni – dovrà spegnersi, morire. Per scatenare una catastrofe, non è necessario quel momento terribile in cui un uomo di stato perda il controllo dei suoi nervi e prema il pulsante che metterà in moto il meccanismo della distruzione atomica. Un evento cosmico non determinabile e non prevedibile può provocare l’annientamento della Terra. Ma finora l’uomo non si è ancora adattato all’idea di una tale possibilità, e, guidato dalla fede, ha cercato in una delle mille e mille religioni la speranza di una sopravvivenza dell’anima e dello spirito. Per questo noi affermiamo che la ricerca spaziale non è prodotto della sua libera volontà, ma ch’egli segue una ineluttabile necessità interiore quando cerca nel cosmo le prospettive del suo avvenire. Come sosteniamo che nella più remota antichità la Terra ricevette visite dallo spazio, così riteniamo anche di non essere le uniche intelligenze dell’Universo, anzi consideriamo accettabile l’ipotesi che nel cosmo esistano intelligenze più antiche e più progredite di noi. E se poi giungiamo ad asserire che tutti gli esseri intelligenti per impulso proprio si dedicano alla ricerca spaziale, ci spingiamo per un momento realmente nel regno dell’utopia, ben sapendo di andare a cacciarci in un nido di vespe. Da vent’anni continuano a ricomparire i “dischi volanti”, chiamati nella letteratura americana sull’argomento ufo (Unidentified Flying Objects), ossia oggetti volanti non identificati. Ma lasciamo che si smorzi l’eccitazione suscitata dal nostro proposito di occuparci seriamente di questi chimerici ufo, e occupiamoci prima d’un altro importante argomento, spesso citato nelle discussioni intorno alla legittimità della ricerca spaziale. È stato detto che le ricerche spaziali sono improduttive e che nessuno stato, per quanto ricco, potrebbe investirvi gli immensi capitali necessari senza correr pericolo di bancarotta. Certo, la ricerca in sé non è mai stata lucrosa: solo i risultati della ricerca sono remunerativi e costituiscono la rendita del capitale investito. Un calcolo realistico non può aspettarsi dalle ricerche spaziali già nella fase odierna l’ammortamento del capitale e un congruo profitto. Non c’è un bilancio dei profitti che si traggono dai 4.000 “sottoprodotti” della ricerca spaziale: ma per noi è fuor di dubbio ch’essa renderà quanto raramente ha reso un prodotto della ricerca scientifica. E quando questa ricerca sarà giunta alla meta, non solo ne trarremo i profitti, ma essa ci porterà letteralmente la salvezza dell’umanità dalla rovina. Osserviamo fra parentesi che c’è già una serie di satelliti COMSAT che hanno un’importanza economica. Nel novembre 1967 lo “Stern” riferiva: “La maggior parte delle nuovissime macchine mediche provengono dall’America. Sono il risultato di un’utilizzazione sistematica delle conquiste fatte nel campo della ricerca atomica, della navigazione spaziale e della tecnica militare. E sono il prodotto di una singolare collaborazione, fra giganti dell’industria e cliniche mediche in America, che conduce quasi giornalmente la medicina a nuovi trionfi. “Così la ditta Lockheed, costruttrice degli Starfighter, e la famosa clinica Mayo si sono unite per realizzare un nuovo sistema di terapia sulla base della tecnica dei computer. I costruttori della North American Aviation stanno lavorando, sulla base di ipotesi mediche, alla realizzazione di un cosiddetto cinto enfisematico, che dovrebbe facilitare la respirazione ai malati affetti da lesioni polmonari. Vi è poi un altro strumento diagnostico, la cui concezione è stata ispirata dal centro studi spaziali della NASA: l’apparecchio, studiato propriamente per misurare l’urto di micrometeoriti contro la superficie di navi spaziali, registra con somma precisione gli spasmi muscolari in certe malattie nervose. “Un sottoprodotto veramente provvidenziale della tecnica computer americana è anche lo stimolatore cardiaco. Oltre duemila tedeschi vivono già con uno strumento del genere nella cassa toracica. Si tratta di un minigeneratore a batteria, che viene applicato sotto la pelle. Partendo da questo il chirurgo inserisce un filo di collegamento attraverso la vena giugulare superiore fino al ventricolo destro. Mediante regolari impulsi elettrici il cuore viene stimolato a contrazioni ritmiche. E batte. Quando, dopo tre anni, la batteria dello stimolatore è esaurita, può essere cambiata con un’operazione relativamente semplice. “Recentemente il complesso industriale statunitense General Electric ha perfezionato il piccolo prodigioso congegno della tecnica medica creando un modello a due velocità. Se il soggetto vuol giocare a tennis, o fare una corsa per prendere il treno, basterà che tocchi una sola volta brevemente con un’asticciola magnetica il punto del proprio torace dove è stato incorporato il generatore: e il cuore si porrà immediatamente a lavorare a ritmo più affrettato.” Fin qui il trafiletto di “Stern”: tre nuovi esempi di sottoprodotti della ricerca spaziale. Chi ha ancora il coraggio di dire che è inutile? Sotto il titolo “Novità ispirate dai razzi lunari”, la rivista “Die Zeit” (n. 47, nov. 1967) riferisce: “I dispositivi studiati per un atterraggio dolce dei veicoli spaziali sulla Luna interessano anche i costruttori di automobili, perché potrebbero ampliare considerevolmente le nostre conoscenze sul comportamento delle macchine in caso di sinistri. Anche se non sarà possibile ottenere che le nostre macchine offrano, in ogni genere di scontri, la massima sicurezza per le persone che si trovano a bordo, i dispositivi usati con successo nella navigazione spaziale potrebbero tuttavia contribuire a ridurre il rischio nelle collisioni. Un’alta stabilità con minimo peso garantiscono le lamiere ‘a favo’ che trovano sempre più largo impiego nella moderna costruzione aeronautica. Anche nell’industria automobilistica si sta sperimentando questo materiale nuovo. Il pavimento del prototipo della Rover, azionato da turbina a gas, è composto appunto da honeycombs.” Nessuno ormai che sia al corrente delle possibilità e del vertiginoso sviluppo della ricerca può oggi accettare certe sentenze come “non sarà mai possibile viaggiare da stella a stella”. La giovane generazione del nostro tempo vedrà queste imprese “impossibili” tradursi in realtà. Si costruiranno gigantesche navi spaziali con motori di inconcepibile forza. Nel novembre 1967 i russi realizzarono l’agganciamento di due capsule spaziali senza equipaggio nella stratosfera. Un ramo della ricerca spaziale lavora già alla realizzazione di una specie di schermo protettore -simile a un arco voltaico – che verrebbe preposto alla vera e propria capsula per evitare o deviare l’urto di particelle di materia. Un gruppo di importanti fisici lavora intorno ai cosiddetti tachioni, ipotetiche particelle che si muovono a una velocità superiore a quella della luce, e il cui limite inferiore di velocità è la velocità della luce. Si sa che i tachioni devono esistere: si tratta “solo” di produrre la prova fisica della loro esistenza. Ma tali prove “per assurdo” sono già state fornite per il neutrino e per l’antimateria. Infine agli ultimi critici, nel coro dei nemici del volo spaziale, si deve fare un’altra obiezione: credete realmente che alcune migliaia tra gli uomini forse più intelligenti del nostro tempo dedicherebbero il loro appassionato lavoro a una pura utopia, o a uno scopo inutile? Occupiamoci quindi, coraggiosamente, dei famosi dischi volanti, anche col rischio di non venir presi sul serio. In questo caso, ci troveremo accomunati alla sorte – e questo non è un piccolo conforto – di uomini famosi e degni di ogni ammirazione. I dischi volanti furono avvistati in America come sulle Filippine, sulla Germania occidentale come sul Messico. Supponiamo pure che il 98% delle persone che asserirono di aver visto dischi volanti avessero scorto in realtà fulmini globulari, palloni-sonda, singolari formazioni di nuvole, nuovi sconosciuti tipi di aerei, o anche strani giochi di luci ed ombre in un cielo crepuscolare. Senza dubbio si è dato il caso di intere folle colpite da isterismo di massa, che asserivano di aver visto qualcosa che in realtà non c’era. E naturalmente c’erano in mezzo anche i ciarlatani che volevano trar profitto da un preteso avvistamento e fornire titoli di scatola ai giornali in un periodo morto. Ma togliamo pure tutti gli squilibrati, i bugiardi, gl’isterici e i ciarlatani: resta sempre un gruppo considerevole di osservatori freddi e obiettivi, e anche competenti del ramo. Può essere che una semplice massaia si sia sbagliata, che si sia sbagliato un agricoltore del Far West. Ma quando, per esempio, l’avvistamento di un disco volante è denunciato da un esperto capitano pilota, è difficile considerarlo sui due piedi come una corbelleria. Un capitano pilota se ne intende di fenomeni di miraggio, di fulmini globulari, di palloni-sonda e simili; viene regolarmente sottoposto a visite di accertamento sulla sua prontezza di riflessi e quindi anche sul buon funzionamento della sua vista; per alcune ore prima del volo, e durante il volo stesso, non può toccare alcool; infine un capitano pilota non ha interesse a raccontar fandonie di volo, perché farebbe fin troppo presto a perdere il suo bel posto di lavoro così ben pagato. Ma quando non solo un capitano pilota, bensì un intero gruppo di piloti (tra cui anche piloti militari) racconta la stessa storia, non si può fare a meno di prestare ascolto. Noi non sappiamo neppure che cosa sono i dischi volanti: non vogliamo affermare che si tratti di oggetti volanti sicuramente costruiti da esseri intelligenti estranei alla Terra, anche se a questa ipotesi ben poco si potrebbe obiettare. Purtroppo l’autore di queste pagine, nei suoi viaggi tutt’intorno al globo, non ha mai potuto vedere coi suoi occhi un disco volante. Ma possiamo citare qui alcuni rapporti garantiti e degni di fede: Il 5 febbraio 1965 il ministero della difesa americano comunicò che la sezione speciale per lo studio dei dischi volanti aveva avuto l’incarico di controllare i rapporti di due operatori radar. Il 29 gennaio 1965 i due uomini avevano individuato sui loro schermi radar, presso il campo d’aviazione della Marina nel Maryland, due oggetti volanti sconosciuti, che si avvicinavano al campo da sud all’enorme velocità di 7.680 chilometri orari. Giunti a 50 chilometri sopra il campo, i due oggetti fecero una brusca virata e sparirono nuovamente dallo schermo radar. Il 3 marzo 1964 diverse persone, fra cui tre meteorologi, avvistarono a Canberra (Australia) un grande luminosissimo oggetto volante, che attraversava il cielo mattutino in direzione nord-est. I testimoni oculari, interrogati da delegati della NASA, raccontarono che l’oggetto sconosciuto aveva cominciato a barcollare stranamente e un oggetto più piccolo si era lanciato contro quello grande. L’oggetto piccolo si era acceso di un rosso incandescente e poi si era spento, mentre quello grande, direttosi verso nord-ovest, era scomparso ai loro sguardi. Uno dei meteorologi dichiarò: “Io ho sempre riso di questi dischi volanti. Che debbo dire, ora che io stesso ne ho visto uno?”. Il 23 novembre 1953 sullo schermo radar della base aerea di Kinross, nel Michigan, comparve un oggetto volante sconosciuto. Il tenente pilota R. Wilson, che si trovava in volo di allenamento su un aereo a reazione F-86, ebbe il permesso di seguire la “cosa”. Gli uomini della torre radar osservarono Wilson che inseguì lo sconosciuto oggetto per 160 miglia. Improvvisamente sullo schermo radar si videro i due corpi volanti avvicinarsi e fondersi l’uno con l’altro. I segnali radio diretti al tenente Wilson rimasero senza risposta. Il giorno dopo furono inviati reparti di truppa ad esplorare la zona in cui l’inspiegabile vicenda era avvenuta, alla ricerca di rottami; anche il Lago Superiore, che si trova nelle vicinanze, fu attentamente esaminato per vedere se vi fossero tracce d’olio. Non si trovò nulla. Del tenente Wilson e del suo apparecchio non si trovò mai più alcuna traccia. Il 13 settembre 1965 il sergente di polizia Eugene Bertrand in una strada secondaria di Exeter (New Hampshire, usa), poco prima dell’una di notte trovò una signora tutta stravolta al volante della sua macchina. La signora si rifiutava di proseguire e affermava che un gigantesco oggetto volante, rosso e luminoso, l’aveva inseguita per 10 miglia fino alla deviazione 101, e poi era sparito nel bosco. Il poliziotto, uomo anziano e pieno di senso pratico, pensò che la signora fosse un po’ squilibrata, ma poco dopo all’autoradio della sua vettura sentì da un’altra pattuglia la stessa comunicazione. Dal quartier generale il suo collega Gene Toland gli ordinò di tornare immediatamente in centrale, e qui un giovanotto raccontò la stessa storia che gli aveva già narrato la signora: anch’egli era stato inseguito da un oggetto incandescente rossiccio e si era rifugiato nel fossato al lato della strada. Solo controvoglia gli uomini si accinsero a rastrellare la zona, convintissimi che tutta quella stupida storia doveva avere una spiegazione razionale. Per due ore fecero le più accurate ricerche, poi presero la via del ritorno. Giunsero a un pascolo dove stavano sei cavalli, che d’improvviso si diedero precipitosamente alla fuga. Quasi nello stesso istante la zona fu invasa da una luce rossa fiammeggiante. “Là! Guardate!” gridò un giovane poliziotto. Al di sopra degli alberi si librava un oggetto rosso incandescente, che lento e silenzioso si muoveva verso il gruppo. Bertrand tutto eccitato comunicò per telefono al collega Toland che il dannato oggetto era proprio davanti ai suoi occhi. Anche la fattoria che sorgeva lungo la strada e le colline intorno erano illuminate da una viva luce rossa. Una seconda auto della polizia, col sergente Da ve Hunt, venne ad arrestarsi con gran stridore di pneumatici accanto al gruppo. “Maledizione!” balbettò Dave. “Ho sentito te e Toland all’autoradio gridarvi qualche cosa. Pensavo che vi fosse dato di volta il cervello… Ed ecco là!” All’inchiesta che si tenne in seguito sulla misteriosa vicenda deposero 58 testimoni oculari qualificati, fra i quali alcuni meteorologi e militi della guardia costiera; non si può quindi pensare che questi uomini, come osservatori obiettivi, non siano in grado di distinguere un pallone-sonda da un elicottero, o un satellite che precipita nello spazio dalle luci di posizione di un aeroplano. Il rapporto conteneva i puri dati di fatto, senza dare alcuna spiegazione sull’ignoto oggetto volante. Il 5 maggio 1967 il sindaco di Marliens (Còte d’Or), Malliotte, in un campo di trifoglio lontano 623 metri dalla strada osservò uno strano foro. Si guardò intorno più attentamente e trovò le tracce di un cerchio del diametro di 5 metri e della profondità di 30 centimetri. Da questo cerchio partivano dei solchi profondi 10 centimetri e rivolti in tutte le direzioni: si aveva l’impressione che una pesante griglia di metallo fosse stata premuta sul terreno. Al termine di ogni solco si trovarono dei fori, profondi 35 centimetri, probabilmente là dove i “piedi” della griglia metallica si erano poggiati sul prato. La cosa più strana era la finissima polvere bianco-violetta che copriva i solchi e i fori. Noi abbiamo personalmente esaminato questa località presso Marliens: quelle tracce non possono essere state lasciate dagli spiriti. Che si deve pensare di questi rapporti? Spiacevole è tuttavia l’uso che molti uomini, e intere leghe occulte, fanno delle loro pretese osservazioni: non fanno che confondere l’aspetto della realtà e impediscono agli scienziati seri di occuparsi dei fenomeni denunciati per timore di esporsi al ridicolo. In una trasmissione televisiva del secondo canale tedesco (6 novembre 1967) sul tema “Invasione dal cosmo?” un capitano pilota della Lufthansa riferiva un fatto di cui erano stati testimoni oculari lui stesso e altri quattro uomini del personale: il 15 febbraio 1967, dieci o quindici minuti prima di atterrare a San Francisco, avevano visto a poca distanza dal loro apparecchio un oggetto volante di circa 10 metri di diametro, luminosissimo, che per un certo tempo volò accanto a loro. Essi trasmisero le loro osservazioni all’Università del Colorado, la quale, in mancanza di una spiegazione migliore, rispose che l’oggetto volante doveva essere un frammento di un razzo lanciato. Il capitano pilota dichiarò che con un’esperienza di volo di oltre due milioni di chilometri né lui né i suoi colleghi potevano credere che un pezzo di metallo cadendo dal cielo si potesse trattenere per un quarto d’ora nell’aria, avesse quelle dimensioni e potesse seguire volando il loro apparecchio: non poteva quindi prestar fede a quella spiegazione, tanto più che da terra quel corpo volante non identificato era rimasto visibile per quasi tre quarti d’ora. Il capitano d’aviazione tedesco non dava davvero l’impressione di un visionario. Due notizie dalla “Suddeutsche Zeitung” di Monaco, del 21 e 23 novembre 1967: “Belgrado (dal nostro corrispondente) “Oggetti volanti sconosciuti (ufo) vengono da alcuni giorni avvistati su diversi paesi dell’Europa meridionale. Durante il week-end un astronomo dilettante a Zagabria fotografò tre di questi luminosi oggetti volanti. Ma mentre gli esperti stanno ancora esaminando questa foto, stampata su più colonne dai giornali jugoslavi, si annunciano già dalle montagne del Montenegro nuovi dischi volanti, che hanno parecchie volte causato persino incendi di boschi. Queste notizie vengono soprattutto dalla località di Invangrad, dove gli abitanti affermano decisamente di aver osservato tutte le sere in questi ultimi giorni degli strani oggetti luminosi che si libravano nel cielo. Le autorità confermano che in questo territorio si sono recentemente verificati parecchi incendi di boschi senza che se ne sia finora potuto appurare la causa.” “Sofia (upi) “Sulla capitale bulgara è comparso un disco volante. Come ha comunicato l’agenzia stampa bulgara BTA, il disco era visibile anche ad occhio nudo. Secondo la BTA, il corpo volante era ‘più grande del disco solare, e più tardi assunse la forma di un trapezio’. L’oggetto volante, che era intensamente luminoso, fu osservato anche da un telescopio a Sofia. Un collaboratore scientifico dell’Istituto Idrologico e meteorologico bulgaro ha detto che l’oggetto volante si muoveva presumibilmente per forza propria. Pare che viaggiasse a 30 km circa dalla superficie terrestre.” Ma uomini di illimitata stupidità sbarrano la via ad una ricerca seria: vi sono dei “medium” che affermano di aver rapporti con esseri extraterrestri; vi sono gruppi che dai fenomeni non ancora chiariti sviluppano stravaganti idee religiose o visioni apocalittiche, e arrivano ad affermare di aver ricevuto dagli equipaggi dei dischi volanti degli ordini per la salvezza dell’umanità. Per i fanatici religiosi 1′”angelo del disco volante” egiziano viene naturalmente da parte di Maometto, quello asiatico da Buddha e quello cristiano – c’è bisogno di dirlo? – direttamente da Gesù Cristo. Al settimo congresso internazionale degli studiosi di dischi volanti, nell’autunno del 1967, il professor Hermann Oberth, chiamato il “padre del volo spaziale”, che fu il maestro di Wernher von Braun, designava ancora il problema dei dischi volanti come “problema extrascientifico”; ma probabilmente, aggiungeva Oberth, gli oggetti volanti erano “astronavi di altri pianeti” e affermava testualmente: “Evidentemente gli esseri che li guidano si trovano a una fase culturale assai più progredita della nostra, e se conduciamo abilmente la cosa, possiamo imparare molto da loro”. Oberth, che ha pronosticato lo sviluppo dei razzi sulla Terra, suppone che sui pianeti più esterni del sistema solare esistano le premesse per una generazione spontanea della vita, e come scienziato si augura che anche ricercatori seri si accingano a studiare questi problemi che possono sembrare a un primo sguardo fantastici: “Gli scienziati si comportano come oche troppo ingrassate, che non vogliono più digerire niente. Le idee nuove, le respingono semplicemente come assurdità”. Sotto il titolo “Tardo sospetto”, il 17.11.67 la “Zeit” riferiva: “Per parecchi anni i sovietici hanno deriso l’isterismo occidentale sui dischi volanti. Sulla “Pravda” sono comparse recentemente delle smentite ufficiali dell’esistenza di tali stranezze celesti. Ora il generale d’aviazione Anatolij Stoljakow è stato nominato direttore di una sezione che deve esaminare tutti i rapporti e le notizie sui dischi volanti. Il “Times” di Londra scrive al proposito: ‘Sia che i dischi volanti siano il prodotto di allucinazioni collettive o che vengano dagli abitanti di Venere, o che infine siano da intendere come rivelazioni divine – ci deve essere una spiegazione, altrimenti i russi non avrebbero mai nominato una commissione d’inchiesta’”. La vicenda più spettacolare e più misteriosa sul fenomeno “materia dall’Universo” si manifestò alle ore 7 e 17 minuti la mattina del 30 giugno 1908 nella taiga siberiana: una palla di fuoco attraversò il cielo e si perdette nella steppa. I passeggeri che viaggiavano sulla ferrovia transiberiana osservarono una massa luminosa che si muoveva da sud verso nord. Un fragore di tuono scosse il treno, seguirono delle esplosioni e la maggior parte delle stazioni sismografiche del mondo registrarono chiaramente una scossa sismica. A Irkutsk – che dista 900 chilometri dall’epicentro del movimento tellurico – la lancetta del sismografo oscillò per circa un’ora. Nel raggio di 1.000 chilometri si sentì il fragore. Intere mandrie di renne furono distrutte: gruppi di pastori nomadi furono sollevati in aria con le loro tende. Solo nel 1921 il professor Kulik cominciò a raccogliere notizie da testimoni oculari: infine gli riuscì anche di ottenere i mezzi per una spedizione scientifica in questi territori scarsamente popolati della taiga. Quando poi nel 1927 la spedizione raggiunse il fiume Tunguska Petrosa, credette dapprima di aver ritrovato il cratere di una gigantesca meteora. Ma questa supposizione si rivelò erronea. Già a 60 chilometri dal centro dell’esplosione si scorgevano i primi alberi senza cima. E quanto più ci si avvicinava al punto critico, tanto più la regione appariva spoglia: le piante erano nude come pali del telegrafo e attorno all’epicentro i tronchi più poderosi erano spezzati da una forza esterna. Infine si trovarono tracce di un gigantesco incendio. Via via che si inoltrava verso nord, la spedizione si convinceva che in quella regione doveva essere accaduta una gigantesca esplosione. Quando poi in una regione fangosa si rinvennero fori di ogni grandezza, si fece l’ipotesi di una pioggia di meteoriti: si praticarono scavi e trivellazioni in tutta la zona senza rinvenire una minima traccia, né un frammento di ferro né un resto di nichel né un ciottolo spezzato. Due anni dopo si continuarono le ricerche con perforatrici più potenti e altri mezzi tecnici, e si giunse a scavare fino alla profondità di 36 metri: non si poté rinvenire alcuna traccia di un qualsiasi materiale meteoritico. Furono impiegati strumenti sensibilissimi, che rivelano anche quantità minime di metallo nel terreno. Non si ebbe alcun risultato. Tuttavia in quel luogo doveva essere avvenuta un’esplosione, perché migliaia di uomini avevano visto e migliaia avevano udito. Nel 1961 e nel 1963 per incarico dell’accademia sovietica delle scienze furono mandate nel bacino della Tunguska due altre spedizioni. Quella del 1963, sotto la direzione del geofisico Solotov, fornita dei più moderni strumenti tecnici, giunse alla conclusione che nella taiga siberiana doveva essere avvenuta un’esplosione nucleare. La natura di un’esplosione si può determinare quando siano noti i dati relativi all’intensità delle diverse forze fisiche che l’hanno provocata. Nel caso dell’esplosione avvenuta lungo il corso della Tunguska uno di questi dati fu fornito dall’intensità delle radiazioni sprigionate dal fenomeno. Nella taiga, a 18 chilometri dall’epicentro dell’esplosione, furono trovati alberi che nel momento dell’esplosione erano stati esposti alle radiazioni e ne erano stati incendiati. Ma un albero verde può prender fuoco solo quando la quantità di energia di radiazione recepita comporta da 70 a 100 calorie per centimetro quadrato. Il lampo dell’esplosione era così luminoso da proiettare ombre secondarie fino a distanze di 200 chilometri dall’epicentro. Da tali misurazioni risultò che l’energia di radiazione dell’esplosione doveva essere intorno ai 2,8*10e+23 erg (fra parentesi, l’erg in linguaggio scientifico è la cosiddetta unità di misura del lavoro: un coleottero della massa di 1 grammo produce il lavoro di 981 erg quando si arrampica per 1 centimetro su per un muro). Per un raggio di 18 chilometri sulle vette degli alberi i rami, grossi o sottili, appaiono carbonizzati. Se ne può concludere che si trattò di un’improvvisa ondata di calore, conseguenza di un’esplosione, non dell’incendio di un bosco. Queste combustioni si trovano solo là dove nessuno schermo interruppe il diffondersi del lampo dell’esplosione. Di conseguenza si deve essere trattato indubbiamente ed evidentemente di radiazioni. La somma di tutti questi effetti indica come necessaria causa delle gigantesche devastazioni l’energia di 10^23 erg. Questa immensa energia corrisponde al potere distruttivo di una bomba atomica di 10 megaton, vale a dire 100.000.000.000.000.000.000.000 erg. Tutte le rilevazioni confermano l’ipotesi di un’esplosione nucleare e le altre interpretazioni, che indicano come causa del fenomeno la caduta di una cometa o di un grosso meteorite, sono da relegare nel regno delle favole. Quali spiegazioni si offrono per questa esplosione nucleare nell’anno 1908? Nel marzo 1964 un articolo della autorevole rivista “Swesda” di Leningrado sosteneva la tesi che esseri intelligenti di un pianeta della costellazione del Cigno avevano cercato di prender contatto con la Terra. Gli autori dell’articolo, Genrich Altov e Valentina Sciuraleva, affermavano che l’esplosione avvenuta nella taiga siberiana sarebbe stata la risposta ad una violenta eruzione del vulcano Krakatoa, nell’Oceano Indiano, avvenuta nel 1883, che aveva avuto i caratteri di una vera e propria esplosione e che aveva lanciato nello spazio un grosso fascio di radioonde. Gli esseri del lontano pianeta avrebbero erroneamente interpretato le radioonde come un segnale dal cosmo: perciò avrebbero rivolto verso la Terra un raggio laser un po’ troppo forte, il quale, incontrando l’atmosfera terrestre sopra la Siberia, si sarebbe trasformato in materia. Dobbiamo aggiungere che non possiamo accettare questa interpretazione, perché ci sembra troppo fantastica. Parimenti non possiamo accettare la teoria che vorrebbe spiegare il fenomeno come impatto di antimateria. Anche supponendo che nelle profondità del cosmo esista l’antimateria, in questo caso sulle rive della Tunguska non dovrebbe esistere più nulla, perché lo scontro fra materia e antimateria ha per conseguenza la dissoluzione di entrambe. Inoltre le probabilità che un frammento di antimateria nel suo lungo cammino raggiunga la Terra senza collisioni con altra materia ci sembrano assolutamente minime. Noi siamo piuttosto del parere di quelli che vedrebbero nell’esplosione nucleare lo scoppio di un serbatoio di energia di un’astronave extraterrestre. Fantastico? Sì, certo: ma non per questo dev’essere necessariamente impossibile. Sulle meteoriti della Tunguska c’è una vastissima bibliografia. Comunque vogliamo ancora aggiungere che intorno al centro dell’esplosione, nella taiga, il tasso di radioattività è ancor oggi il doppio che in qualsiasi altro luogo. Accurati esami degli alberi e dei loro anelli annuali confermano un sensibile aumento della radioattività dal 1908. Finché non esiste nemmeno una prova scientifica esatta e indubitabile di questo fenomeno – e di molti altri, – nessuno ha il diritto di respingere senza motivo un’interpretazione che resta nell’ambito delle possibilità del pensiero umano. Sui pianeti del nostro sistema solare noi siamo abbastanza ben informati: la “vita”, nel senso che noi l’intendiamo, si potrebbe supporre tutt’al più, e in misura molto limitata, sul pianeta Marte. L’uomo ha fissato i limiti teorici della possibilità di sviluppo della vita secondo i propri criteri: è questo il concetto di ecosfera. Nel nostro sistema solare solo Venere, la Terra e Marte rientrano nei limiti dell’ecosfera. Si pensi tuttavia che la determinazione dell’ecosfera parte dalle nostre concezioni sulla vita e le sue esigenze, ma che una vita extraterrestre non è necessariamente legata a quelle che sono per noi le premesse vitali. Fino al 1962 Venere era stato considerato un pianeta adatto alla vita organica, ossia finché il Mariner II si avvicinò fino a 34.000 chilometri dal pianeta. Dopo le informazioni radiotrasmesse dal Mariner, anche Venere non è più considerato adatto alla vita secondo i concetti umani. Dalle notizie trasmesse dal Mariner II risulta che la temperatura superficiale di Venere, tanto sulla superficie illuminata dal Sole quanto su quella in ombra, si aggira di media sui 430 °C. Tali temperature non permettono la presenza di acqua in superficie: potrebbero esserci solo laghi di metallo fuso. L’idillica visione di Venere come amabile gemello della Terra è tramontata per sempre, anche se la presenza di idrocarburi potrebbe offrire terreno propizio ad ogni genere di batteri. Non è passato molto tempo da quando gli scienziati affermavano che la vita su Marte era impossibile. Da qualche anno si è cominciato a dire che era difficilmente possibile. Oggi, dopo la fortunata missione esplorativa del Mariner IV, si deve ammettere, anche se con qualche esitazione, una certa probabilità che su Marte esistano le condizioni necessarie alla vita. Anche se non possiamo aderire così senz’altro alla teoria dell’esistenza di esseri intelligenti su Marte, riteniamo tuttavia possibile che si siano sviluppate sul rosso pianeta forme di vita inferiore. È anche nei limiti delle possibilità che il nostro vicino Marte abbia posseduto migliaia e migliaia di anni fa una sua propria civiltà. Particolare considerazione merita in ogni caso la luna di Marte, Phobos. Marte ha due lune: Phobos e Deimos (in greco angoscia e terrore), che erano già note molto tempo prima che l’astronomo americano Asaph Hall le scoprisse nell’anno 1877. Giovanni Keplero avanzava già nel 1610 l’ipotesi che Marte fosse accompagnato da due satelliti. Se pochi anni dopo il monaco cappuccino Schyrl affermò di aver visto le lune di Marte, dovette certamente esser vittima di un’illusione, poiché con gli strumenti ottici del suo tempo non era possibile vedere i due minuscoli pianeti. Affascinante poi è la descrizione che nel 1727 Jonathan Swift ci dà nel suo libro “Viaggio a Laputa” (uno dei viaggi di Gulliver): non solo descrive le due lune di Marte, ma ne indica la grandezza e le orbite. Nel III capitolo si legge: ” Gli astronomi laputani passano gran parte della loro vita ad osservare i corpi celesti, e allo scopo utilizzano lenti che sono molto superiori alle nostre. Questo fatto dà loro il vantaggio di poter estendere le loro osservazioni a un campo molto più vasto che non gli astronomi d’Europa, e hanno potuto compilare un catalogo di 10.000 stelle fisse, mentre i nostri cataloghi più ampi ne portano soltanto un terzo. Fra l’altro hanno scoperto due astri minori, o satelliti, che girano intorno a Marte. Il più interno ha dal centro del pianeta una distanza pari a tre volte il suo diametro, il più esterno una distanza pari a cinque volte il diametro. Il primo compie la sua rotazione in 10 ore, il secondo in 21,5, per cui i quadrati del loro tempo di rotazione si avvicinano fortemente al cubo della loro distanza dal centro di Marte. Questo dimostra ancora una volta che essi sono sottoposti alla stessa legge di gravitazione che governa anche gli altri corpi celesti.” Come potè Swift descrivere i satelliti di Marte, che furono scoperti solo 150 anni dopo? Senza dubbio, anche prima di Swift, alcuni astronomi avevano supposto l’esistenza di questi satelliti, ma le supposizioni non bastano per dare cifre così precise. Noi non sappiamo da dove Swift abbia tratto le sue conoscenze. In effetto, questi satelliti sono le più piccole e più strane lune del nostro sistema solare: ruotano secondo orbite quasi circolari sopra l’equatore! Se riflettono la stessa quantità di luce della nostra Luna, Phobos dovrebbe avere un diametro di 16 chilometri e Deimos un diametro di 8. Ma se fossero satelliti artificiali, e capaci perciò di riflettere una maggior quantità di luce, potrebbero in realtà essere ancor più piccoli. Sono le uniche lune finora a noi note del nostro sistema solare che ruotino intorno al loro pianeta più rapidamente di quanto il pianeta ruoti su se stesso. Considerando la rotazione di Marte, Phobos compie in un giorno marziano due giri, mentre Deimos ruota intorno a Marte a una velocità di poco maggiore di quella con cui Marte stesso ruota intorno al proprio asse. Nel 1862, quando la Terra si trovava nella posizione più favorevole rispetto a Marte, si cercarono invano i due satelliti, che furono scoperti 15 anni dopo. Fu presentata la teoria dei planetoidi, sostenuta da diversi astronomi, secondo la quale le lune di Marte sarebbero frammenti del cosmo, che Marte avrebbe catturato. Tuttavia la teoria dei planetoidi non è sostenibile: entrambe le lune di Marte ruotano infatti quasi sullo stesso piano al di sopra dell’equatore. Un solo frammento del cosmo potrebbe casualmente trovarsi in quella posizione. Infine alcuni fatti ben precisi portarono a formulare la moderna teoria dei satelliti artificiali. Il noto astronomo americano Cari Sagan e lo scienziato russo Shklovsky, nel loro libro “Intelligent Life in the Universe” pubblicato nel 1966, sostenevano la teoria che Phobos sarebbe un satellite artificiale. Come risultato di una serie di misurazioni Sagan giunge alla conclusione che Phobos deve essere cavo: e naturalmente una luna non potrebbe essere cava. In realtà le particolarità dell’orbita di Phobos non sono in rapporto con la sua massa apparente mentre tali orbite sono tipiche dei nostri corpi cavi. Il russo Shklovsky, direttore della sezione radioastronomica dell’Istituto Sternberg di Mosca, conferma la stessa conclusione, dopo avere osservato che nel moto del satellite Phobos si rileva un’accelerazione singolarissima e contraria alle leggi naturali. Questa accelerazione è identica a quella che si riscontra anche nei nostri satelliti artificiali. Oggi le teorie fantastiche di Sagan e Shklovsky sono prese in seria considerazione. Gli americani progettano altre sonde marziane, che dovranno compiere rilevazioni radiogoniometriche anche sulle lune di Marte. I russi si propongono nei prossimi anni di esaminare da diversi osservatori i moti delle lune di Marte. Se dovesse risultar vera l’ipotesi, sostenuta in Oriente e in Occidente da eminenti scienziati, che Marte avrebbe avuto un tempo una civiltà molto evoluta, si porrebbe naturalmente il problema del perché oggi non esista più. Forse gli esseri intelligenti che abitarono Marte furono costretti a cercarsi nuove sedi? Forse il pianeta natio, che andava perdendo sempre più ossigeno, li costrinse a cercarsi una nuova patria? O una catastrofe cosmica fu la causa del crollo della loro civiltà? E infine: poté una parte degli abitanti di Marte salvarsi su un pianeta vicino? Emanuel Velikovsky, nel suo libro “Worlds in Collision”, pubblicato nel 1950 e oggi ancora molto discusso nei circoli competenti, spiegava che una cometa gigantesca doveva essersi scontrata con Marte, e da questa collisione si sarebbe formato Venere. La sua teoria avrebbe potuto essere dimostrata se fosse risultato che Venere aveva un’alta temperatura superficiale, nubi contenenti carboidrati e una rotazione anomala. L’esame dei dati fornitici dal Mariner II conferma le teorie di Velikovsky: Venere è l’unico pianeta che ruota “all’indietro”, l’unico quindi che non si attiene alle regole del gioco del nostro sistema solare, come Mercurio, la Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano o Nettuno… Ma se una catastrofe cosmica può esser presa in considerazione come causa dell’annientamento della civiltà sorta sul pianeta Marte, tali indizi vengono anche a suffragare la nostra teoria che la Terra in tempi remotissimi possa aver ricevuto visite dallo spazio. Allora si può accogliere come utopia, o possibilità speculativa, la tesi che un gruppo di giganti marziani possa essersi salvato sulla Terra, per fondare, con gli esseri semi-intelligenti che quivi abitavano, la nuova civiltà dell’homo sapiens. Poiché la gravitazione di Marte è minore di quella della Terra, si può supporre che la corporatura degli uomini di Marte fosse più alta e più massiccia di quella degli abitanti della Terra. Se in questa teoria c’è un nocciolo di realtà, avremmo trovato i giganti che vennero dalle stelle, che potevano muovere quegli immensi blocchi di pietra, che insegnarono agli uomini arti prima ignorate, e che infine si estinsero… Mai come oggi noi abbiamo saputo tanto poco di tante cose. Siamo certi che il tema “Uomo e intelligenze extraterrestri” resterà all’ordine del giorno della ricerca scientifica, finché tutti gli enigmi risolvibili avranno trovato una risposta.