
Abbiamo lasciato Promētheús incatenato alle rocce del Caucaso. È nudo, esposto al sole, sferzato dal vento e dalla pioggia, mentre le stagioni scorrono lente sul suo capo e gli anni si susseguono generazione dopo generazione. Ogni giorno, un’aquila di bronzo scende dal cielo e, con il becco affilato, gli strappa crudelmente un pezzo di fegato. La notte, il fegato ricresce nell’addome di Promētheús. Per l’astuto titán, l’immortalità è un’indicibile sofferenza.

Ora, per quanto i testi ellenici non siano molto espliciti, l’umanità, in quei tempi primordiali, era costituita unicamente da maschi. Agli dèi si accompagnavano le dee, e il mare e la terra erano gremiti di ninfe, naiadi e oceanine. Ma gli uomini appartenevano a un solo sesso, quello maschile. Ed è appunto un kalòs kakós, un «bel male», il dono che Zeús ha deciso di elargire a questa primordiale razza di maschi, quale punizione per l’hýbris di Promētheús. Così come Promētheús aveva plasmato l’uomo a immagine degli dèi, Zeús ordina ora di creare la donna [gynḗ] a somiglianza delle dee. Hḗphaistos, il dio-artefice, modella allora la terra in una bellissima figura di fanciulla, ed Athēnâ la veste e l’adorna. La Theogonía si dilunga a descrivere l’abbigliamento e gli ornamenti della prima donna mortale, segni concreti e visibili della sua femminilità e capacità seduttiva:

Accennato nella Theogonía, il mito viene sviluppato da Hēsíodos nelle Érga kaì Hēmérai, dove altre divinità affiancano Hḗphaistos ed Athēnâ nella creazione della prima donna. Il risultato è un cocktail micidiale: una bella fanciulla, virginale nel contegno, ma dal fascino irresistibile e dall’animo volubile e falso.

Tutta la scena della creazione della donna viene svolta da Hēsíodos utilizzando il genere neutro, come per sottolineare l’innaturalità della sua origine e conferire artificiosità alla comparsa del genere femminile. La donna è una costruzione, un simulacro, un dáidalon vivente. L’essenza femminile si racchiude qui in una sorta di paradosso, dove «la donna assomiglia a una donna» (Loraux 1989). A differenza delle servitrici d’oro di Hḗphaistos, automi meccanici che imitano gli esseri viventi (Iliás [XVIII, 417-420]), Pandṓra è un artificio vivente. Il mito antropogonico, perduto come racconto primario, viene recuperato da Hēsíodos nell’episodio della creazione di Pandṓra. Il confronto con le antropogonie mesopotamiche è piuttosto agevole, a partire dal fatto che, in entrambi gli schemi, è una coppia di dèi a impegnarsi nell’opera demiurgica. A Enki e Nintu (creatori dell’umanità nell’Enûma ilû awîlum), o Enki e Ninmaḫ (nell’Ud reata), corrispondono qui Hḗphaistos ed Athēnâ. La presenza di Hḗphaistos in luogo di Promētheús non desta problemi: i due personaggi sono in parte sovrapponibili, entrambi caratterizzati da un fertile ingegno e dalla capacità creativa, e in certi casi addirittura interscambiabili (si veda il rispettivo ruolo nelle versioni del mito della nascita di Athēnâ). Le Érga kaì Hēméraifanno intervenire anche Aphrodítē ed Hermês, in ruoli a loro congegnali: la prima al fine di rendere Pandṓra irresistibile agli uomini; il secondo per plasmarle un animo menzognero e volubile. Curiosa la presenza delle sette dee che intervengono all’operazione: le tre Chárites (le «grazie»), Peithṓ (la «persuasione») e le tre Hôrai (le «stagioni»), che sembrano occupare la nicchia delle sette dee che affiancano Ninmaḫ nell’Ud reata.


Sebbene Hēsíodos sia l’unica fonte letteraria importante su Pandṓra, sono pervenute alcune immagini che ne rappresentano la creazione e vestizione. In particolare, un cratere attico a figure rosse, risalente al V secolo a.C., sembra mettere in scena una versione alternativa della creazione di Pandṓra: la fanciulla, vestita di tutto punto, velata e col capo incoronato, è raffigurata dalla vita in su, mentre emerge dalla terra; accanto a lei, reggendo nella mano destra un martello da scultore, Hḗphaistos stende verso di lei la sinistra. Sul capo di Pandṓra si libra un piccolo Érōs alato; a sinistra si riconoscono Hermês e Diónysos. L’immagine sembra combinare due modalità antropogoniche: il mitema degli uomini che emergono dalla terra e l’opera demiurgica di Hḗphaistos. A seconda di come leggiamo la figura, il dio-artigiano potrebbe essere colto nell’atto di invitare Pandṓra a uscire dalla terra, quanto in quello di modellarla nella creta. Mentre nel caso della creazione maschile le due modalità ci sono pervenute come miti alternativi, nell’immagine della nascita di Pandṓra sono strettamente intrecciate: l’antropogonia propone qui una combinazione tra concorso femminile (l’emersione dalla madre terra) e concorso maschile (il lavoro del demiurgo).
Ma c’è veramente differenza tra le due modalità antropogoniche, o esse vengono in qualche modo a coincidere? In fondo, l’argilla utilizzata dai vari demiurghi per plasmare gli esseri umani viene essa stessa dalla terra. Abbiamo già rilevato la correlazione tra āḏām e ăḏāmāh, e tra homo e humus. Il nome Pandṓra, «tutti i doni», è un trasparente epiteto della dea-terra Gê. Se gli esseri umani sono emanazioni del suolo materiale, Pandṓra lo è in un senso assai più esplicito. È la Terra stessa che prende vita e si fa donna. Condotta da Hḗphaistos al consesso degli dèi, la prima femmina umana viene accolta con stupore e ammirazione. «Inganno senza scampo per gli uomini» la definisce Hēsíodos (Theogonía [589]). Ed a ben ragione. Il nome Pandṓra può essere inteso come «colei a cui tutti gli dèi hanno elargito doni», oppure, con maggiore sottigliezza, «colei che tutti gli dèi hanno portato in dono». E è proprio questo il destino della fanciulla, che gli dèi recano in regalo ad Epimētheús. Promētheús lo aveva avvertito: «Non accettare doni da Zeús». Ma Epimētheús è indifeso, di fronte alla sfrontatezza di Zeús, e ancor più dinanzi al fascino irresistibile di Pandṓra. Coerente con il suo nome, il «postveggente», cade nella trappola ordita dagli dèi e sposa la fanciulla. Il povero Epimētheús si accorgerà dell’inganno solo quando sarà troppo tardi: il «bel male» è ormai entrato a far parte della vita umana. A questo punto, Hēsíodos tira un sospiro rassegnato, elencandoci tutte i danni e le molestie provocati dalle donne:
Ma l’eclatante quanto banale misoginia di Hēsíodos non centra mai il vero bersaglio. Il poeta sta cercando di convincerci dei motivi per cui le donne sarebbero un male per gli uomini, ma non fa che imbastire un elenco di insignificanti luoghi comuni, di chiacchiere da osteria. La nostra impressione è che Hēsíodos stia cercando di mettere una pezza, di fornire una giustificazione, laddove gli manca un motivo assai più netto e profondo. Non siamo in una commedia di Molière, o di Goldoni, ma nel territorio del mito. Stiamo indagando gli archetipi stessi della natura umana, e lo schema è teleologico. Cosa ha comportato l’introduzione del genere femminile? Riformuliamo la domanda: com’era il mondo, prima che Zeús ci fornisse le donne? Senza le gioie e i travagli del sesso, è ovvio. Ma soprattutto senza la necessità del sesso. Il mito non fornisce informazioni su come gli uomini si riproducessero, prima di incontrare le donne. Ma ha poca importanza se spuntassero dalla terra o cadessero dagli alberi. Hēsíodos ci fa balenare suggestivi scenari delle più età remote dell’uomo (dell’oro, dell’argento, del bronzo, etc.), caratterizzate perlopiù da uno stato di paradisiaca innocenza (Érga kaì Hēmérai [106-201]): ma sono immagini che appartengono a una tradizione parallela, non direttamente comparabili con il nostro problema immediato. Tra l’altro, affermare che l’umanità, prima dell’introduzione di Pandṓra, fosse costituita unicamente da maschi, contiene una sorta di forzatura logica. Il maschile è tale solo in relazione al femminile: mancando l’altro polo della sessualità umana, esso non è più distinguibile dal concetto stesso di umanità. Poiché la posta in gioco è proprio l’estensione di tale concetto, Hēsíodos ne incentra la questione su un attento gioco di termini. Prima della nascita di Pandṓra, egli usa sempre, per indicare gli «uomini», la parola ánthrōpoi, che in greco indica gli esseri umani in generale, distinti dagli dèi. È solo dopo la creazione di Pandṓra che gli «uomini» cesseranno di essere chiamati ánthrōpoi e diverranno soltanto ándres «maschi» (Theogonía [592]), cioè metà dell’umanità. Il prima non ha importanza. Stiamo parlando di un passato «assoluto», secondo la bella formula di Michail Bachtin, di un’epoca che si colloca prima del tempo. Non va spiegata, tantomeno dobbiamo sforzarci di renderla coerente dal punto di vista logico. Bisogna solo accettarla come punto di partenza: è un calco, in negativo, del mondo che conosciamo. È un’epoca che ci viene mostrata solo nel momento in cui termina. Da allora in poi il genere umano sarà com’è sempre stato: dissociato nella complementarietà dei due sessi, nella necessità dell’incontro, della seduzione, del matrimonio, della riproduzione. Ed è solo questo che conta, ai fini del mito. A partire sacrificio di Mēkṓnē, da quella linea tirata a separare i destini degli dèi e dell’umanità, la natura umana ne è uscita drasticamente ridimensionata. Gli dèi hanno nascosto le sorgenti della vita, dice Hēsíodos, e dunque dobbiamo lavorare, faticare, strappare alla terra il nutrimento necessario per sopravvivere. Siamo esseri effimeri, mortali, e ci perpetuiamo attraverso i nostri figli. L’introduzione della morte richiede la scoperta della riproduzione, e dunque della scissione dei sessi. Non è difficile indovinare, nel pensiero mitico greco, un certo rimpianto per il tempo precedente al giorno funesto in cui le donne furono create e il desiderio di potersi riprodurre senza di esse (cfr. Eurypídēs: Mḗdeia [573-575]; Hippólytos stephanophóros [618]).La condanna di Zeús colpisce l’umanità in due punti fondamentali, l’alimentazione e la sessualità, di cui Promētheús ed Epimētheús appaiono essere i diretti responsabili:
1- Sacrificio di Mēkṓnē (Promētheús) → Alimentazione: lavoro quotidiano per strappare il cibo alla terra
2- Dono di Pandṓra (Epimētheús) → Sessualità: introduzione della divisione in sessi e dell’accoppiamento
Cibo e sesso sono le due necessità/condanne dell’esistenza umana. Ma l’esito finale del nostro stato sulla terra non è stato ancora raggiunto: Pandṓra ha una ancora una freccia al suo arco. Anzi, un vaso. L’episodio del proverbiale píthos di Pandṓra produce più problemi di quanti non ne risolva. L’unica fonte del mito rimane Hēsíodos, che peraltro ci lascia pieni di domande e non entra in dettagli. Lasciamo a lui la parola:

Il testo originale è piuttosto scarno. Non viene detto da dove venisse il vaso, né come fosse finito tra le mani di Pandṓra. Non sappiamo per quale ragione la fanciulla ne sollevò il coperchio, ma le sue motivazioni personali passano in secondo piano, rispetto al fatto che tutto avveniva per volere di Zeús. Riconosciamo però di essere di fronte a un motivo letterario: un passo di Hómēros parla di due vasi, piazzati sulla soglia della dimora di Zeús, da cui tutte le cose buone e le cose cattive vengono distribuite ai mortali (Iliás [XIV: 527-528]). Ma rimane il fatto che, nel mito esiodeo, Zeús si serva proprio di una donna per colmare di mali la vita degli uomini. Più esattamente della prima donna, archetipo di tutto il genere femminile. Ancora un motivo medio-orientale? Sembrerebbe proprio di sì. Hēsíodos descrive i suoi kakói soprattutto come malattie che abbreviano e rendono penosa l’esistenza umana. Anche nel mito mesopotamico, Ninmaḫ è responsabile di tutti i malanni e le deformità, e le trovate di Enki di ricondurre ogni tipo di disgrazia a un ordine delle cose appare, ai nostri occhi, un tentativo fino imbarazzante di integrare gli handicappati nel tessuto sociale. Alla fine, è la presenza stessa della sofferenza nel mondo a rimanere irrisolta: il gratuito capriccio di due divinità ubriache. Ma i kakói di Hēsíodos hanno vita propria: si muovono a loro piacere tra gli uomini, in silenzio, di giorno e di notte, portando malattie e sofferenze. I popoli del Medio Oriente personificavano il propagarsi delle malattie nell’immagine di dèmoni vaganti, invisibili, spietati. Si confronti la descrizione di Hēsíodos con questo scongiuro paleobabilonese contro i dèmoni:

L’ultimo dramma si è concluso. Il mondo è ormai divenuto come noi lo conosciamo. Ma prima di sbarcare in altri e nuovi lidi, alla ricerca di schemi e omologie, concediamoci un piccolo intermezzo nella profumata terra d’Egitto.
(Fonte: Bifrost.it)