
« Di colui che vide ogni cosa, voglio narrare al mondo;
di colui che apprese e che fu saggio in tutte le cose. »
(Proemio dell’Epopea di Gilgamesh)
L’Epopea di Gilgamesh è un ciclo epico di ambientazione sumerica, scritto in caratteri cuneiformi su tavolette d’argilla, che risale a circa 4500 anni fa tra il 2600 a.C. e il 2500 a.C. Esistono sei versioni conosciute di poemi che narrano le gesta di Gilgamesh, re sumero di Uruk, nipote di Enmerkar e figlio di Lugalbanda. La versione più conosciuta, la cosiddetta Epopea di Gilgamesh è babilonese.
L’Epopea di Gilgamesh raccoglie tutti quegli scritti che hanno come oggetto le imprese del mitico re di Uruk ed è da considerarsi il più importante dei testi mitologici babilonesi e assiri pervenuti fino a noi. Di quest’opera noi possediamo, oltre all’edizione principale allestita per la biblioteca del re Assurbanipal e ora conservata nel British Museum di Londra, altre versioni più antiche e frammentarie. Tutti i popoli che sono venuti a contatto con il mondo sumerico hanno avvertito la grandezza dell’ispirazione, tanto è vero che tavolette cuneiformi con il testo di Gilgameš sono state trovate in Anatolia, scritte in lingua ittita e lingua hurrita, e in Siria-Israele. I testi più antichi che trattano le avventure dell’eroe appartengono alla letteratura sumerica e scene dell’epopea si ritrovano, oltre che su vari bassorilievi, su sigilli cilindrici del III millennio a.C.
Fonti storiche
Le fonti dell’epopea sono varie e coprono un lasso di tempo di circa duemila anni. Gli originali poemi in lingua sumera e la successiva versione in lingua accadica sono le principali fonti delle traduzioni moderne; la più antica versione sumera viene utilizzata soprattutto per riempire le lacune della versione accadica. Nonostante recenti integrazioni, l’epica rimane ancora incompleta.
Il nucleo più antico dei poemi sumeri viene modernamente considerato come una raccolta di storie separate, piuttosto che una singola epica unitaria.L’origine risale alla terza dinastia di Ur (2150-2000 a.C.), mentre le più antiche versioni accadiche vengono datate all’inizio del secondo millennio a.C., probabilmente tra il XVIII e il XVII secolo a.C. quando alcuni autori utilizzarono il materiale letterario esistente per dare forma ad un’epica unificata. La versione standard accadica, che consiste di dodici tavolette di argilla, fu redatta da Sin-liqe-unninni, tra il 1300 e il 1000 a.C. e fu trovata nella biblioteca di Assurbanipal a Ninive. L’Epopea di Gilgamesh fu scoperta nel 1853 dall’archeologo assiro Hormuzd Rassam. Nel 1870 fu pubblicata una traduzione in inglese da parte dell’assirologo George Smith,a cui fecero seguito altre traduzioni in varie lingue moderne. La più recente e completa versione critica in inglese è un libro in due volumi pubblicato nel 2004 da Andrew George e che comprende l’esegesi di ogni singola tavoletta con testo originale e traduzione a fronte.La prima versione in arabo direttamente dalle tavolette originali risale al 1960 ad opera dell’archeologo iracheno Taha Baqir. La scoperta di alcuni artefatti datati al 2600 a.C. che fanno riferimento a Enmebaragesi re di Kish, menzionato nell’epica come padre di uno degli avversari di Gilgamesh, ha rafforzato la credibilità dell’effettiva esistenza storica di Gilgamesh.

Narrazione
Il titolo assegnato dai moderni studiosi alla narrazione deriva dal nome del protagonista, Gilgamesh, il re sumero di Uruk (Erech nella Bibbia, attualmente Tell-al-Warka in Iraq), un eroe che affronta avventure di ogni genere e, dopo la morte del compagno Enkidu, parte alla ricerca del segreto dell’immortalità . Gilgamesh è il re sumero della città di Uruk. Guerriero crudele, è per due terzi divino e per un terzo mortale e tiene sotto il suo dominio un popolo sempre più stanco delle sue prepotenze e ingiustizie. Gli dei, dunque, per punirlo, decidono di creare un uomo in grado di contrastarlo, Enkidu. Egli è primitivo e rozzo, plasmato dall’argilla e descritto nell’epopea come selvaggio sia nel fisico che nei comportamenti.I due si scontrano, come previsto, ma lo scontro finisce alla pari. Colpito dalla forza di Enkidu, Gilgamesh stringe con lui un patto d’amicizia. Decidono di andare insieme alla Foresta dei Cedri per prelevare il prezioso legno di questi alberi. A guardia della foresta c’è però un mostro, Humbaba, che i due riescono a sconfiggere senza grossi problemi. Accresciuta ulteriormente la sua fama e l’amicizia con Enkidu, Gilgamesh viene corteggiato da Ishtar (la dea della bellezza e della fecondità , ma anche della guerra e della distruzione), che lo vorrebbe come sposo, estasiata dalle sue doti di guerriero e dalla sua fama. Gilgamesh però la rifiuta, visto il triste destino dei passati amanti della dea, come Dumuzi, Isullanu, ecc. Ishtar cadde in preda ad un’ira amara e chiese al padre Anu (il dio del Cielo e padre di Ishtar stessa) di dargli il toro del cielo ed il padre glielo concedette. Ishtar condusse il toro ad Uruk e l’animale provocò la morte di schiere di giovani, per cui Enkidu afferrò il toro per le corna e Gilgamesh gli infilò la spada tra le corna, uccidendolo. Ishtar salì sulla grande muraglia di Uruk e maledisse Gilgamesh, il quale espose le corna del toro nel palazzo ed con Enkidu attraversarono le vie della città , che festeggiò e celebrò l’evento. Il giorno dopo Enkidu dopo essersi svegliato e raccontò a Gilgamesh il sogno che aveva fatto in cui gli dei avevano decretato la sua morte. Infatti ben presto Enkidu fu preso da una grave malattia che lo portò alla morte dopo dieci giorni. Gilgamesh fece un discorso diffronte ai consiglieri di Uruk che ricordò la sua amicizia con Enklidu e li rese partecipi del suo dolore, infine dispose che fosse realizzata una statua in memoria del suo indimenticabile amico. Gilgamesh piangeva e vagava disperato per le lande e le pianure, infine decise di andare alla ricerca di Utnapistim, colui che chiamano il Lontano, colui che gli dei avevano preso con se dopo il Diluvio universale e lo avevano posto a vivere nella terra di Dilmun, e, a lui solo, avevano dato l’immortalità . Gilgamesh, per far tornare in vita il suo amico Enkidu, vorrebbe ottenere da Utnapistim il segreto della vita. Gilgamesh giunge quindi ai grandi monti Mashu, i cui picchi sono alti quanto il muro del cielo ed i suoi poggi scendono giù fino agli inferi, alle sue porte fanno da guardia gli uomini scorpione. L’uomo scorpione gli permise di varcare la porta della montagna, cosa che non era mai stata concessa a nessun mortale. Dopo aver percorso dodici leghe completamente al buio, Gilgames giunge al giardino degli dei. Mentre passeggiava nel giardino fu visto da Šamaš il quale gli disse: Non troverai mai la vita che stai cercando. Gilgames prosegue il suo cammino ed incontra Siduri la quale in un primo momento cerca di evitarlo, ma Gilgames, rivelandogli la sua identità , gli chiede di aprire l’uscio della sua casa, e gli confida che sta cercando di superare la paura della morte. Ma Siduri conferma quanto detto da Šamaš e gli consiglia di godere dei piaceri della vita. Ma Gilgames vuole proseguire la sua ricerca e chiede alla ragazza di indicargli la strada per raggiungere il luogo dove vive Utnapistim (Paradiso). Siduri gli sconsiglia di proseguire poiché nessun uomo è mai riuscito a varcare l’Oceano, tuttavia lo indirizza verso Urshanabi, il barcaiolo di Utnapistim, dicendogli che forse vi è la possibilità che lui lo accompagni, diversamente dovrà desistere dall’impresa. Preso dall’ira, Gilgames e distrugge il sartiame della barca di Urshanabi il quale, dopo averlo visto in azione, gli si avvicinò e gli reso noto il suo nome, altrettanto fece Gilgames.Tavoletta XI.La delusione di Gilgamesh è, però, grande: il saggio gli risponde che la morte è inevitabile per l’uomo che, prima o dopo, dovrà lasciare questo mondo. Gilgamesh, ormai senza speranze, sta per andarsene quando Utanapishtim, impietosito, gli rivela che c’è un’unica possibilità per l’eterna giovinezza: è una pianta che si trova in fondo al mare. Gilgamesh parte subito alla ricerca del prezioso vegetale e, dopo averlo trovato, decide di riposarsi sulle rive di un ruscello. Al suo risveglio, scopre che la pianta tanto preziosa è stata mangiata da un serpente, che dopo averla mangiata ha cambiato pelle. Sconfitto, torna così ad Uruk, la sua città .Tavoletta XII.Gilgamesh prega il dio degli inferi di fargli rivedere Enkidu per un’ultima volta. Il desiderio viene esaudito e l’anima di quest’ultimo si presenta a Gilgamesh. Enkidu rivela al suo grande amico che la vita nell’oltretomba è triste e cupa, piena di rimpianti per tutto ciò che non si è fatto nella vita terrena e per le occasioni che si sono perse. Gli consiglia pertanto di lasciar stare in pace i morti e di godersi la vita finché possibile, dato che nell’oltretomba l’esistenza sarà piatta e senza felicità . Le uniche persone che potranno godere di un’esistenza dignitosa nell’aldilà sono coloro che hanno generato numerosi figli, specchio della concezione secondo cui l’unico modo di vivere in eterno è quello di lasciare una discendenza.
Relazioni e influenze con la Bibbia
Nei testi biblici, molto successivi, e nell’epica classica, compaiono svariate affinità con elementi del poema; si pensa che alcuni temi fossero diventati largamente diffusi nel mondo antico e che la loro attestazione testimoni rapporti culturali fra i popoli (ad esempio si presume l’influenza sugli ebrei del periodo della prigionia di questi ultimi a Babilonia). Le somiglianze degli elementi della trama e dei personaggi dell’Epopea con quelli della Bibbia comprendono ad esempio il Giardino dell’Eden e il racconto del Diluvio universale contenuto nella Genesi.