



Il mito mesopotamico è indispensabile per comprendere le origini del più famoso mito antropogonico dell’occidente, quello biblico. Come detto altrove, la Bibbia fu compilata probabilmente durante l’epoca della deportazione babilonese (586-538 a.C.) o subito dopo, e i teologi che si occuparono di dare una forma canonica agli scritti sacri cucirono testi di diversa antichità e provenienza. Gli antichi miti ebraici provenivano dal comune fondo mitologico cananeo, nel quale si intrecciavano concezioni di provenienza mesopotamica. Durante il periodo dell’esilio a Babilonia, gli Ebrei vennero in stretto contatto con la raffinata teologia babilonese, il cui confronto fu decisivo per l’elaborazione e la distinzione dei miti ebraici. Secondo l’ipotesi documentaria, messa a punto dal biblista tedesco Julius Wellhausen (1844-1918) ai primi del XX secolo, il Pentateuco sarebbe il risultato del lavoro di cucitura di quattro tradizioni distinte, diverse nel tono e non sempre coerenti tra loro.
I biblisti si riferiscono ad esse come alla tradizione Yahvista (J), Elohista (E), Deuteronomista (D) e Sacerdotale (P). La tradizione Yahwista (J) è la più antica: risalente al periodo monarchico (circa 850-700 a.C.), quando l’Assiria era il regno più potente della Mesopotamia, raccoglie le più arcaiche leggende diffuse tra le genti di Israele e di Giuda. Dio vi è descritto in termini antropomorfici ed è chiamato Yǝhwāh. Questo nome è il frutto di una convenzione creatasi col tempo nel tentativo di evitare di pronunciare il Nome Divino: allo scheletro consonantico del nome, YHWH [יהוה], venivano aggiunte le mozioni vocaliche della parolaĂḏōnāy «signore» e, con qualche passaggio fonetico, si arrivava alla forma Yǝhwāh o Yǝhōwāh. La Tradizione Elohista (E) si sarebbe formata in epoca successiva, dopo la divisione del regno di Israele; sicuramente prima del 720 a.C., data in cui il Regno Settentrionale fu conquistato dagli Assiri. Dio è qui chiamato Elōhîm, plurale di maestà del termine generico el «dio», ed è descritto con accenti piuttosto astratti. Secondo Wellhausen, le due tradizioni vennero integrate tra il 720 e il 620 a.C. La tradizione Deuteronomista (D), così chiamata perché prevalente nei Dǝḇārîm, o «Deuteronomio», e di carattere prevalentemente giuridico, risalirebbe al VII secolo a.C. Ultima, infine, la tradizione Sacerdotale (P) risulta essere un insieme di testi molto antichi, sviluppati all’epoca della cattività babilonese (VI sec. a.C.). Dio vi è chiamato sia Elōhîm che Yǝhwāh, presenta una teodicea trascendentale ed è del tutto esente dagli antropomorfismi: motivo che sarà ancor più sviluppato nel giudaismo successivo. In epoca post-esilica, la tradizione Sacerdotale, utilizzata quale impianto cronologico e teologico della storia sacra, servirà ai compilatori del Pentateuco come cornice per inquadrare i temi tramandati dalle altre tradizioni. Nel corso del XX secolo, gli apporti dell’archeologia, la migliore conoscenza della storia e della cultura dell’antico Medio Oriente, nonché delle letterature sumerica, accadica, ḫittita, cananea ed egiziana, l’affinarsi del metodo comparativo in critica e in filologia, hanno messo in crisi la cronologia di Wellhausen. Nonostante ciò, l’ipotesi documentaria è ancora efficacemente utilizzata dai biblisti, almeno nei suoi contorni generali. Ma concentriamoci sul Bǝrēʾšîṯ, la«Genesi», il primo e più giustamente famoso dei libri mosaici. Il mito di creazione dell’uomo risulta essere una giustapposizione delle tradizioni Yahwista e Sacerdotale. Quest’ultima è astratta, stringata, e sembra presentare una creazione simultanea dell’uomo e della donna.
Null’altro viene aggiunto dalla tradizione Sacerdotale. È soltanto l’istantanea della creazione. Il passaggio dell’uomo dal non-essere all’essere è completamente sostenuto da un’unica parola, il verbo «creò», e qualunque particolare è subordinato all’unico dettaglio che l’autore del testo avverta come importante: «a norma dell’immagine di Elōhîm li creò». Non vi è altro da aggiungere.
La tradizione Sacerdotale si risolve in questa unica definitiva illuminazione. La versione più popolare, quella a cui dobbiamo i dettagli più pittoreschi e gustosi dell’antropogonia biblica, ci deriva invece dalla tradizione yahwista, che, nel secondo capitolo del Bǝrēʾšîṯ, ri-narra daccapo la creazione del mondo e dell’uomo, talora concordando nei dettagli col primo testo, talora distaccandosene, il tutto con un tono affatto diverso e che per molti versi ci ricorda le più antiche cosmogonie semitiche. Così infatti inizia:
Né c’era l’uomo a coltivare il terreno e a far salire dalla terra un canale per irrigare tutta la superficie del terreno. In questo passo sentiamo riecheggiare l’Enûma ilû awîlum, laddove gli Anunnaki avevano creato gli Igigi affinché scavassero corsi d’acqua e aprissero canali che vivificassero la terra, lavoro che dopo la ribellione degli Igigi passa all’umanità. Nel testo biblico la situazione, per quanto più astratta, non appare diversa: sicuramente ha ereditato il motivo dell’uomo-lavoro dal mito mesopotamico. Yǝhwāh Elōhîm, dopo aver creato il cielo e la terra, si trova di fronte una terra ancora priva di vita, e questo perché non aveva ancora mandato la pioggia, ma anche perché non c’era ancora l’uomo a costruire canali e irrigarne la superficie. Allora, dice il testo, Yǝhwāh Elōhîm modellò l’uomo. Traspare da questo «allora» l’intenzione teleologica: il motivo antropogonico sembra ancora una volta finalizzato al lavoro che l’uomo dovrà fare per coltivare e irrigare la terra, ché tale lavoro completerà l’opera della creazione iniziata da dio. È lo stesso motivo che avevamo colto sulle parole del Promētheus di Loukianós: la creazione dell’uomo è propedeutica al completamento del kósmos, in quanto è solo con il lavoro e l’opera umana che il mondo sarà amministrato e ordinato, per conto e in onore degli dèi.

Siamo in pieno discorso eziologico. Il mondo che si offre all’esperienza umana appare perfettamente ordinato e completo così com’è composto, nel suo insieme indiscindibile di leggi naturali e costumanze sociali. L’immaginazione mitogenetica, fissando la realtà circostante come inevitabile punto d’arrivo, ne srotola il passato e definisce il processo creativo che, inevitabilmente, porta al mondo che l’uomo conosce.
Ma torniamo alla Bibbia e concentriamoci sul versetto decisivo:

Abbiamo ancora una volta un’operazione di modellamento della prima figurina umana a partire con la polvere del suolo. Di nuovo l’uomo che viene dalla terra, che è tutt’uno con la terra. E in quanto generato dalla terra,ăḏāmāh, il nuovo essere verrà chiamato āḏām, «uomo»>. Non si tratta di un semplice processo di derivazione: ăḏāmāh è femminile, āḏām maschile. L’uomo «nasce» dalla terra, così come il bambino nasce dalla madre. Alcuni passi biblici parlano dell’uomo, prima di essere creato, come di un «embrione» intessuto nelle profondità della terra. Come nei Tǝhillîm, i «Salmi», dove leggiamo:

Anche tra gli Ebrei, l’antropogonia demiurgica non esclude quella per emersione dalla terra, anzi, s’intreccia con essa: la nascita dell’āḏām, come quella di ogni uomo, richiede un concorso femminile (la terra) e uno maschile (Yǝhwāh).
Derivato dalla terra, ăḏāmāh, fisicamente ed etimologicamente, āḏām è l’uomo per antonomasia. Egli non ha un nome definito: i primi capitoli del Bǝrēʾšîṯlo citano sempre preceduto dall’articolo: hāʾāḏām, «l’uomo». È solo a partire dal quinto capitolo, quando si ricapitolerà la sua discendenza, che hāʾāḏām diviene esplicitamente Āḏām. Molto si è speculato, successivamente, sul nome di Āḏām. Le tre lettere ebraiche che lo compongono (אדם), si riteneva rivelassero gli elementi formativi della sua creazione:nēper «cenere», dām «sangue», mārāh «fiele». Perché se un uomo manca di questi tre elementi in uguale misura, si ammala e muore. Molteplici sono le tradizioni ebraiche sull’origine della polvere scelta da Yǝhwāh per creare il primo uomo. Naturalmente si tratta della terra più pura: quella del monte Ḥǝḇrôn o del sacro monte Môriyyāh. Nei Targûmîm e nei Midrašîm si afferma che alla terra del monte Môriyyāh venne aggiunta una mescolanza di terra presa dai quattro angoli del mondo, irrorata con acqua tratta da ogni fiume e da ogni mare esistente. Servendosi di polvere presa da ogni parte del mondo, Yǝhwāh ebbe la certezza che, in qualunque luogo vivessero i discendenti di Āḏām, la terra li avrebbe sempre accolti. Altrimenti, se un orientale fosse andato a occidente, un occidentale fosse andato a oriente, e la morte li avesse colti, il suolo avrebbe rifiutato di accoglierne la polvere. Questa tradizione è ripresa dalla versione slava del Sēpẹr Ḥănôq, il «Libro di Enoch», a sua volta basata su un originale greco, dove si dice che il nome di Āḏām fosse formato su un acrostico delle parole greche Anatolḗ «oriente», Dýsis «occidente», Árktos «settentrione» e Mesēmbría «meridione» (Slavjanskaja kniga Enocha [30: 13]). Nella Spelunca Thesaurorum siriaca si dice che gli angeli videro la mano destra di Dio stesa sopra il mondo e la videro raccogliere polvere da ogni luogo della terra, una goccia d’acqua da ogni mare, un rivolo d’aria da ogni vento e un poco di calore da tutti i fuochi dell’universo, radunando i quattro elementi nel cavo della sua mano e creando così Āḏām. Nella versione islamica, Allāh mandò i quattro arcangeli Ǧibrīl, Mīḫāʾīl, Isrāfīl e ʿAzrāʾīl ai quattro angoli della terra, e con essa creò il corpo di Ādam: per formare il suo cuore e la sua testa, tuttavia, Allāh scelse polvere da un sito vicino alla Makka, dove più tardi sarebbe sorta la Kaʿba. In tutti questi miti, derivazione da un comune archetipo, l’uomo veniva dunque ad essere una sorta di microcosmo che riassumeva nella sua piccola forma umana l’intero mondo. Vi era insomma una consustanzialità tra l’uomo e il mondo. In molte versioni si dice che Āḏām, subito dopo la creazione, aveva un corpo così grande che quando era disteso arrivava da un angolo della terra all’altro, e quando stava eretto la sua testa era al livello del trono divino, e di tale bellezza e fulgore che al solo vederlo gli angeli fuggirono tremanti del cielo chiedendosi: «Possono esservi due poteri divini, uno qui e l’altro sulla Terra?» Per calmarli, Dio posò la sua mano su Āḏām e ridusse le dimensioni di lui a cento cubiti. In seguito le avrebbe ancor più ridotte dopo la caduta. Ma ritorniamo ancora una volta al nostro versetto:

Abbiamo già visto all’opera questo «alito di vita» [nišǝmat ḥayyîm] nella pagina precedente. È il rûaḥ, lo spirito di Dio che, nel secondo versetto del Bǝrēʾšîṯ, avevamo visto aleggiare sulle acque abissali, indicazione di una potenza che scende a vivificare la materia, traendola dallo stato di indeterminatezza primordiale per conferirgli una natura dinamica e vibrante. È una parola che si estende dall’indefinibile spazio divino fino all’intimo pulsare della vita. «Il principio dinamico di ogni cosa», spiega l’ebraista Giulio Busi. Abbiamo anche visto come alla base di questa parola, rûaḥ, vi sia l’onomatopea dell’erompere improvviso del vento, quello stesso vento che nei miti mesopotamici serviva come arma al dio di turno per ammansire e separare le acque primordiali. È un termine che nella traduzione greca dei Settanta, sarà resa con pneûma, indicante qualcosa tra la vita, il respiro e l’anima, e quindi in latino con l’importante parola spiritus. Abbiamo visto che nella tradizione mesopotamica era stato necessario uccidere un dio, Weʾe, e mescolare il suo sangue e la sua carne all’argilla mortale, affinché il simulacro d’uomo potesse acquistare vita e coscienza, oltre a uno spirito divino e immortale [eṭemmu]. La medesima cosa avviene nel mito ebraico senza che sia necessario alcun deicidio. Lo spirito divino [rûaḥ] passa da Dio all’uomo con la dolcezza di un soffio. Come la forma di polvere di Āḏām conteneva in sé la totalità della terra, attraverso lo spirito di vita insufflato nelle sue narici, ha in sé anche una scintilla della natura divina. Ecco cos’è l’uomo: il mondo che prende coscienza di sé stesso e che attraverso la coscienza si avvicina a Colui che l’ha creato. È un processo che in un certo senso già prelude al moderno principio antropico. La creazione della donna, nella tradizione Yahwestica, avviene in un secondo tempo. Yǝhwāh, rendendosi conto che l’uomo era solo, decide di fargli un aiuto degno di lui, e conduce presso l’uomo ogni sorta di animali e tutti i volatili del cielo, e a tutti Āḏām impone nomi. Ma non trova nessuna creatura che sia lui adatta. Allora…

Ecco fatto. Tutti gli attori sono in scena, tranne uno. Sta per iniziare il dramma più essenziale e più definitivo della storia umana…
(Fonte: Bifrost.it)