Redazione AG

Quando gli Dei erano uomini


Iniziamo il nostro viaggio alle origini della condizione umana, da un testo di epoca paleobabilonese, i cui primi frammenti furono trovati da John Smith, negli anni ’30 del secolo scorso, tra le rovine della Biblioteca di Aššur-bâni-apli (Assurbanipal, 668-627 a.C.), negli scavi dell’antica Ninive. Il testo venne subito conosciuto come «poema di Atraḫasîs», in quanto il frammento che era venuto alla luce trattava una delle varie versioni mesopotamiche del mito del diluvio e Atraḫasîs era appunto il nome del Noè in questa versione della vicenda. Si sarebbe poi scoperto che il testo era solo una copia recente di un poema assai più antico. Nel corso degli anni successivi vennero alla luce una ventina di altri frammenti, appartenenti a epoche e luoghi diversi. Spesso si trattava di rielaborazioni di testi più antichi piuttosto che copie fedeli, a testimonianza della fortuna del poema originale. Il frammento più antico, minuziosamente ricopiato da un «giovane scriba» chiamato Nûr-Aya, risaliva al regno di Ammiá¹£adûqa (1646-1626 a.C.), dunque di epoca paleobabilonese. Il coscienzioso scriba aveva annotato anche la data precisa in cui le tavolette erano state ultimate e vi aveva aggiunto dei sunti col numero di linee di ogni tavoletta, nemmeno avesse previsto il duro lavoro di ricostruzione del testo che avrebbe impegnato gli archeologi trentacinque secoli più tardi. Soltanto nel 1956, dopo aver collegato tra loro tutti i frammenti, l’assiriologo danese J. Læssøe ricostruì l’ordine giusto del testo e dimostrò che il «Poema di Atraḫasîs» era in realtà una sorta di Genesibabilonese, che abbracciava tutta la storia dell’umanità dalla creazione alla nascita della civiltà. Il titolo originale era Enûma ilû awîlum Â«Quando gli dèi erano uomini», dall’incipit del poema.

Troviamo, alle origini del mondo, una situazione di semi-schiavitù. Divinità maggiori che impongono il lavoro alle minori. Questo testo non dice come gli dèi fossero nati, e nemmeno perché appartenessero a due schiatte distinte: gli Anunnaki e gli Igigi, con i primi che impongono sui secondi la loro autorità. Il testo ci dice soltanto che i tre massimi dèi avevano tirato a sorte i propri domini, e che Anu aveva ricevuto il cielo, Enlil la terra e ad Enki era stato assegnato il compito di trattenere al suo posto le debordanti acque dell’abisso. L’idea che gli dèi siano costretti a lavorare ha una sua logica, in quanto nell’antichità si riteneva che gli dèi venissero nutriti dagli uomini attraverso i sacrifici. Offrire primizie o immolare un agnello richiede un lungo lavoro preliminare: bisogna pascolare le greggi e coltivare i campi; per far questo è necessario che i pascoli siano fertili e i terreni ben irrigati: bisogna scavare canali e portare l’acqua dal fiume. Bisogna costruire muretti divisori e rendere solidi i canali, e servono dunque mattoni, e qualcuno dovrà trovare l’argilla, impastarla, metterla negli stampi e farla seccare. Altri dovranno portare i mattoni, e i capimastri dovranno vagliare i progetti. Ecco dunque che gli dèi stessi sono costretti a sobbarcarsi questi ingrati lavori, affinché le primizie possano essere offerte e gli agnelli giungano agli altari. Non c’è dunque da stupirsi se gli dèi più antichi obblighino i più giovani a dure corvée di lavoro. Integrando il testo di Nûr-Aya, in questo punto lacunoso, con la posteriore recensione assira, risultano fatiche massacranti:

E ritornando al testo paleobabilonese:

>A questo punto gli Igigi si ribellano. All’inizio sono un po’ incerti sul da farsi e sperano che Ninurta, il loro comandante, li sollevi dall’incarico, quindi decidono di recarsi dallo stesso Enlil. Ma gli animi sono esacerbati e la protesta si trasforma in aperta rivolta. Un dio il cui nome è scomparso a causa di una lacuna della tavoletta, si leva e lancia un appello ai suoi fratelli Igigi perché dichiarino guerra a Enlil. Allora gli Igigi gettano nel fuoco le zappe, bruciano gli utensili, dànno le gerle alle fiamme, e nella notte illuminata dalla luce rossastra dei fuochi, si recano in massa all’Ekur, la «casa-montagna», e circondano il palazzo di Enlil. Si profila una vera e propria sommossa contadina, che il testo descrive con estremo realismo. Sembra che le guardie dell’Ekur cerchino di contenere la folla e si accende un tafferuglio che si propaga fino alle porte del palazzo. È Kalkal, il custode delle porte dell’Ekur, a correre da Nuska, il messaggero di Enlil, che a sua volta si precipita nella camera dove il sovrano degli dèi sta riposando, ignaro di quanto sta accadendo alle porte della sua dimora. Il testo insiste sulla totale ignoranza del dio riguardo agli avvenimenti, quasi voglia mettere in evidenza il contrasto tra il beato ozio di Enlil e la dura fatica a cui sono costretti gli Igigi. Enlil, sorpreso e spaventato per l’arrivo degli insorti, fa subito barricare le porte. Nuska gli dice:

«Mio signore, sei pallido per il terrore. Là fuori sono i tuoi figli: cosa temi?»

Ma anche questo richiamo alla consanguineità tra Enlil e i giovani Igigi, non calma il re degli dèi. Allora Nuska consiglia a Enlil di far scendere Anu dal cielo e di far salire Enki dagli abissi per avere il loro aiuto. Tutti gli Anunnaki giungono nell’Ekur e si riuniscono in un’assemblea [puḫrum] assai concitata. Enlil spiega ai grandi dèi la situazione, dicendosi stupito che la folla degli Igigi infuri dinanzi alla porta della sua dimora. Anu suggerisce che Nuska vada a informarsi presso gli Igigi della ragione che li ha spinti ad agire con tanta violenza. Invece, Enlil ordina a Nuska di presentarsi armato dinanzi agli dèi in rivolta e di chiedere loro di denunciare gli istigatori della battaglia. La differenza tra il consiglio moderato di Anu e il messaggio che Enlil invia agli Igigi attraverso Nusku, rivela una diversa valutazione della situazione. Anu ed Enlil sembrano rappresentare rispettivamente il potere legislativo e quello esecutivo: il dio-cielo cerca di comprendere la causa del malcontento, mentre il dio-vento non si interessa che alla ricerca di un colpevole da punire. Nusku obbedisce, esce dal palazzo e trasmette agli Igigi il messaggio di Enlil. Il portavoce degli Igigi risponde:

Nusku riferisce al consiglio degli Anunnaki la risposta degli Igigi. A quelle parole, Enlil comincia a versare lacrime, poi chiede ad Anu di dividere con lui la funzione regale e di assumere il potere per fronteggiare la guerra, e lo invita infine a convocare un dio fra gli ammutinati e dargli la morte in presenza di tutti gli Anunnaki, per impartire un esempio. Ma Anu ed Enki sono più concilianti. Fanno notare che le fatiche imposte agli Igigi sono effettivamente troppo pesanti e che per troppo tempo il loro grido di protesta è stato ignorato. Così agli dèi viene chiesto di trovare una soluzione, di trovare un sostituto che possa sollevare gli Igigi dal loro lavoro e che si accolli la fatica al loro posto. Enki si rivolge allora alla dea madre e le chiede di creare un lullû, un nuovo tipo di essere vivente, perché porti il giogo del lavoro in vece degli dèi. Costei viene qui chiamata Nintu «signora del parto», ma la tradizione mesopotamica le attribuisce molti altri nomi, tra cui Mami «levatrice» e, in accadico, Bêlit-ilî «signora degli dèi», mentre compare come Aruru nello Å a nagba îmuru, l’epopea di GilgameÅ¡. Il poema prosegue in tal modo:

Ha inizio così lo splendido e complesso racconto della creazione dell’uomo. Per cominciare, la dea esige che Enki le porti l’argilla adatta con cui operare, la quale costituirà materia prima da cui saranno tratti i feti. Enki prepara dei bagni di purificazione, perché ora sarà necessario procedere al sacrificio di un dio: ma ciò non avverrà per dare l’esempio agli insorti, come Enlil aveva proposto, ma perché solo così è possibile conferire alla nuova creatura uno spirito immortale.

Il dio scelto per il sacrificio ha nome Weʾe (o, secondo i sumerogrammi, GeÅ¡ti-e). Difficile dire chi sia questa divinità, che non compare precedentemente, a meno che non sia l’anonimo personaggio che aveva istigato gli Igigi alla rivolta. Il testo lo presenta con una frase assai significativa: Â«Weʾe il dio che ha l’intelligenza» [Weʾe ilu Å¡a iÅ¡u ṭêma] [I:223]. L’espressione Weʾe ilu, «Weʾe il dio», è foneticamente simile alla parola accadica per «uomo» [awîlu/amêlu]. Ed è proprio nella differenza tra il dio [ilu] e l’uomo [awîlu] che gioca, anche sul piano linguistico, l’intero poema; un gioco dichiarato fin dal suo paradossale incipit, «quando gli dèi erano uomini», con quell’allitterazione ilû awîlum, che prelude già alla trasfigurazione Weʾe ilu → awîlu.

Mescolando la carne [Å¡iru] e il sangue [damu] di Weʾe con l’argilla che Enki le ha recato, la dea Nintu infonde nella materia inanimata un eá¹­emmu, senza il quale l’argilla evidentemente non può essere pervasa dal calore e dalla pulsazione della vita. E tale eá¹­emmu sarà anche quell’elemento indeperibile che dopo la morte non ritorna alla terra e non ridiventa polvere, ma continua ad esistere. L’eá¹­emmu è il «doppio» dell’uomo, è l’anima che si cala negli inferi, oppure lo spettro che si aggira per il mondo reclamando ai viventi offerte, preghiere o una corretta sepoltura. Creata così questa «argilla vivente», Nintu chiama tutti i grandi dèi [ilâni rabûti], termine con cui non sono compresi soltanto gli Anunnaki, ma anche, per la prima volta, gli Igigi, ormai divenuti pari agli altri, invitandoli a sputare nell’impasto, cosa che essi fanno. In questa azione è certo presente l’uso dei vasai mesopotamici che sputavano effettivamente sulla pasta prima di staccarne delle porzioni, ma sottolinea anche il rifiuto da parte degli Igigi del loro antico destino di manovalanza, destino di cui ora verrà caricata la nuova creatura.

A questo punto tutti gli dèi corrono grati ad abbracciare le ginocchia di Nintu/Mami e le dànno il nuovo nome di Bêlit-kala-ilî «signora di tutti gli dèi». Ora non resta che trarre, dall’informe argilla, i primi esseri umani, ma disgraziatamente il testo s’interrompe qui, essendo il seguito andato perduto. Altri frammenti di diversa provenienza (uno da Ninive, un altro neo-assiro, un terzo paleo-babilonese) ci aiutano tuttavia a ricostruire il proseguo del mito. L’azione si sposta nel bît Å¡imti, «la sala dei destini», dove assistiamo ai diversi processi che porteranno dalla formazione del feto, dalla permanenza nell’utero fino alla sua espulsione al momento del parto. Enki e Nintu entrano da soli in questo sacro luogo, portandovi l’impasto di argilla e carne e sangue, e iniziano un processo compiuto ora da Enki, ora da Nintu, in cui l’alternanza dei gesti permette a ciascuno di definire il campo d’azione che gli è proprio. Enki provvede a plasmare l’argilla sotto gli occhi di Nintu, la quale ripete le formule che Enki le detta coscienziosamente. Quando ha terminato di declamare le formule, Nintu stacca quattordici pani d’argilla: ne mette sette a destra e sette a sinistra di una bassa parete di mattoni. I quattordici pani sembra vengano pressati in altrettanti stampi o «uteri»: da sette di essi nasceranno degli uomini, dagli altri sette delle donne, i quali si disporranno in altrettante coppie. Nintu stabilisce così le regole della gravidanza e della nascita, che da allora faranno parte del mondo. Il testo paleo-babilonese sembra descrivere la maturazione di questi archetipi umani: lo sviluppo dei seni nelle fanciulle e l’apparire della barba nei ragazzi. Nintu, accovacciata, tiene il conto del tempo. Quando alla fine arriva il momento fissato per il parto, al decimo mese lunare, la dea, felice e con la testa coperta, fa da levatrice. Viene così creato l’uomo, che può accollarsi il duro lavoro che era stato degli dèi.

Altri testi mesopotamici – sumeri e accadici – narrano differenti versioni del mito antropogonico. Nella maggior parte di esse viene confermato il ruolo creatore di Enki/Ea nel plasmare l’umanità dall’argilla, e viene anche confermato che gli uomini esistono per sopperire al lavoro degli dèi. Nel mito antropogonico della tavoletta KAR 4, informalmente intitolato dagli studiosi «Racconto bilingue della creazione» o «Sacrificio degli dèi alla», un testo sicuramente anteriore alla fine del II millennio, di cui possediamo una trascrizione goffamente redatta in duplice versione sumerica e accadica, l’impresa viene compiuta in un luogo chiamato «fabbrica della carne» [uzu.mu₂.a]:

Viene così generata la prima coppia umana: Ullegarra Annegarra, rispettivamente «creato per il cielo» Â«creato per l’eternità». I loro compiti sono dichiarati dal testo: essi dovranno far prosperare i campi di grano degli Anunnaki, curare il bestiame, accrescere l’abbondanza del paese e celebrare a tempo debito le feste degli dèi. Chi siano esattamente gli alla (o lamga come si leggeva nelle vecchie traduzioni) non lo sappiamo: ma è evidente che anche qui la creazione degli uomini, destinati al lavoro e alla fatica, viene compiuta tramite il sacrificio di uno o due dèi. Come nell’Enûma ilû awîlum, si riteneva evidentemente che lo spirito umano non potesse essere un prodotto dell’argilla di cui l’uomo era composto, ma potesse provenire soltanto dagli dèi. Questo motivo ricomparirà ancora nell’Enûma elîš babilonese, dove è Ea (nomen babilonese di Enki) a creare l’umanità, ma questa volta a essere sacrificato è Qingu, alleato e amante di Tiâmat, che Marduk aveva sconfitto nella grande battaglia contro le acque primordiali. Questa scena aggiunge ben poco a ciò che sappiamo dell’antropogonia mesopotamica, ma conferma i punti fino ad ora enumerati.

Nell’Enûma elîš il motivo della creazione dell’uomo è secondario: lo troviamo associato alla grande narrazione della guerra che oppone gli dèi ad Apsû Tiâmat e coscienziosamente sbrigato prima di passare alla glorificazione di Marduk. Tutti i dettagli narrati nell’Enûma ilû awîlum qui si dànno per scontati: agli autori dell’Enûma elîš preme soltanto di dividere tra Enki/Ea e Marduk la responsabilità della creazione dell’uomo. L’antica antropogonia sumerica viene integrata nell’Enûma elîš ed adattata alle nuove necessità teologiche. Il sacrificio del dio Weʾe, nell’Enûma ilû awîlum, si era reso necessario per creare l’uomo e risolvere l’incresciosa situazione di liberare gli Igigi dalla necessità e dal peso del lavoro; anche se permane il dubbio che proprio Weʾe fosse stato l’istigatore della rivolta degli Igigi, la sua uccisione non si configura, nel testo, come una vera e propria punizione. È vero, Enlil aveva richiesto un castigo, ma alla sua rabbia erano subentrati gli inviti alla moderazione di Anu ed Enki. Al contrario, Weʾe sembra essere stato ucciso perché dotato di «intelligenza» [ṭêmu]. La sua carne e il suo sangue, mescolati con l’argilla, costituiscono la materia prima del prototipo umano, ma è proprio dall’«intelligenza» [ṭêmu] di Weʾe che deriva lo «spirito» [eá¹­emmu] dell’uomo. Invece, nell’Enûma elîš, Qingu viene punito per essersi ribellato. In questo testo la fedeltà di tutti gli dèi al loro nuovo re Marduk è totale, e anzi, dèi sembrano ben felici e ansiosi di compiacere Marduk con le loro opere. È lo stesso Marduk, sovrano benigno e compiacente, che si premura a liberarli in anticipo del gravame del loro lavoro. La novità del poema babilonese è che qui è Marduk ad avere l’idea di creare un «prototipo di uomo», anche se il delicato compito della creazione spetta, come sempre, al saggio Enki/Ea. Ed è sempre Enki/Ea, qui come nell’Enûma ilû awîlum, a richiedere il sacrificio di un dio affinché la nuova creatura possa venire creata. La punizione di Qingu servirà affinché gli dèi possano «stare in ozio». Sussiste dunque qui la duplice motivazione: viene ribadita l’autorità giudiziaria di Marduk, e intanto dal sacrificio di Qingu sarà creato l’uomo.

(Fonte: Bifrost.it)

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