IPOTESI SCIENTIFICHE

Segnali mandati nel cosmo

Un’intervista con Wernher von Braun l’8 aprile 1960, alle quattro del mattino, in una solitaria valle della Virginia occidentale ebbe inizio un esperimento: il grande radiotelescopio di 85 piedi di Green Bank fu rivolto verso la stella Tau Ceti, lontana 11,8 anni luce. Il giovane astronomo americano Frank Drake, scienziato di chiara fama che dirigeva il progetto, intendeva esplorare lo spazio in cerca di eventuali onde radio trasmesse da altre civiltà, per captare qualche segnale di altri esseri intelligenti del cosmo. Questa prima serie di tentativi durò 150 ore, e fu registrata nella storia dell’astronomia come progetto OZMA, anche se era destinata all’insuccesso. Il progetto fu interrotto non perché almeno uno degli scienziati interessati alla ricerca avesse sostenuto che non esistevano segnali radio nel cosmo, ma perché si riconobbe che al momento non esistevano ancora strumenti tanto sensibili da poter sperare di raggiungere lo scopo. Ma il progetto OZMA non resterà l’unico tentativo del suo genere. Probabilmente si installerà un radiotelescopio sulla Luna, in modo da poter esplorare gl’infiniti spazi interstellari alla ricerca di segnali radio senza essere disturbati dalle interferenze terrestri. D’altra parte c’è da domandarsi se questi tentativi di captare segnali nel cosmo siano utili alle nostre ricerche spaziali e se non sarebbe più opportuno trasmettere radiosegnali nello spazio. Non possiamo pretendere che esseri intelligenti extraterrestri conoscano per caso o il russo o lo spagnolo o l’inglese e non aspettino altro che essere chiamati… Restano, a quanto riteniamo, tre possibilità con cui possiamo segnalarci nello spazio: con simboli matematici, con raggi laser o con immagini. Bisogna ammettere che la prima variante ha delle probabilità: per porla in esecuzione si dovrebbero rilevare e stabilire le lunghezze d’onda intergalattiche che hanno probabilità di essere captate in tutto il cosmo. Con 1.420 MHz si avrebbe la frequenza adatta, perché tale è la frequenza d’irradiazione dell’idrogeno che si forma nell’incontro di atomi di idrogeno. Poiché l’idrogeno è un elemento, questa radiofrequenza potrebbe essere nota in tutto l’Universo. Inoltre 1.420 MHz si troverebbero al di fuori del guazzabuglio delle interferenze terrestri. Le possibilità di errori o i fattori di disturbo sarebbero ridotti al minimo: si potrebbero inviare radioimpulsi nell’Universo, e, se esistono esseri intelligenti extraterrestri, essi potrebbero captarli e riconoscerli. Interessante a questo proposito una notizia della “Zeit” del 22 dicembre 1967. Sotto il titolo “Lampi di luce inviati sulla Luna” vi si legge: “La distanza fra la Terra e la Luna ci è nota con l’approssimazione di poche centinaia di metri, ma gli astronomi non si accontentano. Perciò gli astronauti in uno dei primi voli diretti al nostro satellite porteranno con sé degli specchi e li installeranno sulla superficie lunare. Questi specchi saranno formati da tre superfici riflettenti, poste perpendicolarmente luna all’altra – come l’angolo di una stanza – che hanno la proprietà di riflettere i raggi di luce in direzione della fonte luminosa. “Questo sistema di specchi riceverà dalla Terra dei lampi di luce della durata di un centomilionesimo di secondo, emessi da un laser davanti al quale sarà sistemato un telescopio con un’apertura di m. 1,50. I raggi riflessi dalla Luna saranno recepiti da questo telescopio e proiettati in un fotoriproduttore. “Dalla velocità nota della luce e dal tempo che il raggio laser impiegherà per il viaggio di andata e ritorno si potrà calcolare la distanza dalla Terra alla Luna con una approssimazione di un metro e mezzo.”* * Effettivamente il 21 luglio 1960 questo specchio è stato installato sulla superficie lunare, insieme ad altri due apparecchi: un sismometro e un “lenzuolo” per intrappolare i gas portati sulla Luna dal vento solare. [NdR] Allo stesso modo è pensabile un’emissione di segnali diretta verso di noi. Da molto tempo lo spazio è attraversato da radioonde. Non si può pensare, se la nostra ipotesi corrisponde al vero, che anche esseri intelligenti extraterrestri ci inviino i loro segnali? Per esempio nell’autunno 1964 l’energia elettromagnetica della stella CTA-102 crebbe improvvisamente e gli astronomi russi comunicarono che ritenevano di aver ricevuto segnalazioni da una superciviltà extraterrestre. Questa radiostella CTA-102 fu registrata dai radioastronomi del California Institute of Technology sotto il numero di catalogo 102: di qui il suo nome. L’astronomo Scholomitski il 13 aprile 1965 nell’auditorio dell’Istituto Sternberg di Mosca dichiarava: “Tra la fine di settembre e i primi di ottobre 1964 l’energia elettromagnetica della CTA- 102 aumentò sensibilmente. Ma solo per breve tempo: poi sparì di nuovo. Registrammo il fatto e rimanemmo in attesa. Verso la fine dell’anno l’energia elettromagnetica della fonte tornò di colpo ad aumentare: 100 giorni dopo la prima accensione raggiunse un altro punto massimo”. Il suo capo, il professor Shklovsky, aggiunse che tali oscillazioni di intensità sono molto insolite. L’astrofisico olandese Maarten Schmidt ha accertato nel frattempo mediante accurate misurazioni che la stella CTA-102 deve essere lontana dalla Terra circa 10 miliardi di anni luce. Questo significa che le radiofrequenze, se dovessero provenire da esseri intelligenti, sarebbero state emesse più di 10 miliardi di anni fa. Ma a quel tempo il nostro pianeta – per quanto si ritiene allo stato attuale delle ricerche – non esisteva ancora. Questa considerazione potrebbe essere una specie di colpo mortale per la ricerca di altri esseri viventi nel cosmo. Ma se questi tentativi non avessero alcuna prospettiva di successo, gli astrofisici in America e in Russia, a Jodrell Bank, presso Manchester, come a Stockert presso Bonn, non concentrerebbero le loro ricerche con le potenti antenne direzionali dei loro radiotelescopi sulle cosiddette radiostelle e quasar. Le stelle fisse Epsilon Eridani e Tau Ceti distano da noi rispettivamente 10,2 e 11,8 anni luce. Le radioonde dirette verso questi nostri “vicini” impiegherebbero quindi nel viaggio circa 11 anni, e una eventuale risposta potrebbe giungerci dopo 22. Collegamenti radio con stelle più lontane richiedono in proporzione tempi maggiori: non ci sembra quindi proficuo impegnarsi in tentativi per una presa di contatto a mezzo radioonde con civiltà che distano da noi milioni di anni luce. Ma le radioonde sono i nostri unici mezzi tecnici per questi tentativi? Si potrebbe, per esempio, segnalare la nostra presenza anche con mezzi luminosi. Un forte raggio laser, rivolto a Marte o a Giove, potrebbe non passare inosservato se su quei pianeti esistono esseri intelligenti. (Laser è una sigla che indica uno strumento per la generazione e l’amplificazione di radiazioni ottiche mediante emissione stimo-, lata di luce da parte di sistemi atomici; in inglese: Light amplification by stimulated emission of radiation.) Altra possibilità, che appare un po’ fantastica, sarebbe quella di coltivare pianure gigantesche così da ottenere visibili contrasti di colore, i quali riproducono un simbolo geometrico o matematico di validità presumibilmente universale. Una concezione audace, ma senz’altro realizzabile: un gigantesco triangolo equilatero con lato di 1.000 chilometri viene coltivato a patate lungo il perimetro: in questo enorme triangolo si iscrive un cerchio che sarà coltivato a frumento: ogni estate si otterrà così un visibilissimo disco giallo, inscritto in un triangolo equilatero verde. Un esperimento, fra l’altro, anche utile e proficuo. Ma se vi sono esseri intelligenti extraterrestri che cercano noi come noi li cerchiamo, l’apparire del cerchio e del triangolo sarà per loro un indizio che queste forme non sono un capriccio di natura… Come abbiamo detto, è una possibilità. Qualcuno ha anche proposto di costruire una catena di fari che proiettino la loro luce verticalmente, e questo mare di luce dovrebbe avere la forma di un modello di atomo… Proposte, proposte. Tutte le proposte partono dalla premessa che qualcuno osservi il nostro pianeta. Forse questo modo di affrontare il problema è un modo sbagliato, dato che i nostri mezzi sono così limitati? Pur essendo assai scettici, e piuttosto contrari a qualsiasi forma di occultismo, dobbiamo tuttavia ammettere che non si può fare a meno di prendere in considerazione certi fenomeni fisici oggi ancora inspiegabili, per esempio la trasmissione del pensiero fra cervelli intelligenti, dimostrata su larga base scientifica ma non ancora spiegata. Nelle facoltà parapsicologiche di molte importanti università si stanno oggi studiando coi metodi delle scienze esatte certi fenomeni che fino ad oggi non erano stati ancora analizzati, come la veggenza, le visioni, la trasmissione del pensiero e così via. Da questo studio si escludono naturalmente tutte le infauste storie di spiriti e fantasmi che nascono dalle speculazioni occultistiche o dalla superstizione religiosa: ci si occupa esclusivamente dei fenomeni che sono per così dire maturi per ricerche di laboratorio. Da ricerche singole e di gruppo è risultato che la trasmissione del pensiero è un fatto reale. In questo campo – che fino a poco tempo fa era un campo disprezzato e proibito – si sono già fatti considerevoli progressi. Nell’agosto 1959 fu compiuto l’esperimento del Nautilus, il quale non solo dimostrò la possibilità della trasmissione del pensiero, ma provò che i contatti telepatici fra cervelli umani possono essere più forti delle onde radio. Infatti il sommergibile Nautilus, portatosi a diverse migliaia di chilometri dal “cervello emittente”, si immerse alcune centinaia di metri sotto la superficie: tutti i collegamenti radio furono interrotti, poiché anche oggi le onde radio non penetrano attraverso le acque del mare oltre una certa profondità. Ma il collegamento telepatico fra il signor X e il signor Y continuò a funzionare. Dopo tali esperimenti scientifici, ci si domanda di che cosa sarà ancora capace il cervello umano! Può esso realizzare collegamenti telepatici più veloci della luce? Il caso Cayce, ormai entrato negli annali della scienza medica, sembra autorizzare tali supposizioni. Edgar Cayce, un giovane contadino del Kentucky, non aveva la più lontana idea delle fantastiche capacità racchiuse nel suo cervello; e benché egli sia morto il 5 gennaio 1945, ancor oggi medici e psicologi utilizzano la documentazione sul suo caso; la severa American Medical Association diede a Edgar Cayce l’autorizzazione a tenere consultazioni, benché egli non fosse medico. Edgar Cayce si era ammalato nella prima gioventù: era scosso da convulsioni, la febbre divorava il suo giovane corpo, ed egli entrò in coma. Mentre i medici cercavano invano di fargli riprender conoscenza, Edgar cominciò improvvisamente a parlare con voce alta e chiara: spiegò perché era malato, nominò alcune medicine che gli erano necessarie e indicò gli ingredienti per comporre una pomata con cui si doveva frizionargli la spina dorsale. Medici e parenti erano sbalorditi, perché non riuscivano a capire di dove il fanciullo traesse tutte quelle cognizioni e i vocaboli a lui del tutto estranei. Poiché il caso pareva senza speranza, i medici decisero di seguire le sue istruzioni. Trattato coi medicamenti da lui stesso indicati, Edgar cominciò a migliorare a vista d’occhio e la guarigione non si fece attendere. La fama del singolare caso si sparse, e poiché Edgar aveva parlato in stato comatoso, molti proposero di porre il giovane sotto ipnosi per “strappargli” così consigli terapeutici. Edgar si rifiutò: solo quando un suo caro amico si ammalò, egli dettò una ricetta precisa, usando vocaboli latini, che non aveva mai prima né letto né udito. Una settimana dopo l’amico era guarito. Se il primo caso era stato ben presto dimenticato, come fatto sensazionale, sì, ma da non prendersi scientificamente troppo sul serio, il secondo caso indusse la Medicai Association a nominare una commissione che in futuro, se una cosa simile si fosse ripetuta, provvedesse a registrare e documentare anche i minimi particolari della vicenda. Durante il sonno Cayce aveva conoscenze e capacità che altrimenti avrebbero potuto essere solo il risultato di un consulto. Una volta Edgar prescrisse a un paziente molto ricco una medicina che non riusciva a trovare in alcuna farmacia. Il malato fece alcune inserzioni in giornali molto diffusi, e anche all’estero. Da Parigi (!) un giovane medico gli rispose che suo padre parecchi anni prima aveva prodotto questo medicamento, ma che la produzione ne era stata da lungo tempo sospesa. La composizione del prodotto era identica a quella dettagliatamente indicata da Edgar Cayce. Più tardi Edgar indicò un’altra medicina e diede inoltre l’indirizzo di un laboratorio, in una città molto lontana. Da una telefonata si apprese che il preparato era stato da poco studiato e la-formula prodotta in laboratorio, e si cercava un nome da dargli, poiché il prodotto non era ancora in commercio. La commissione, composta di medici professionisti, è ben lontana dal credere alla telepatia: indaga con metodo concreto e obiettivo, constata ciò che ha osservato e sa che Edgar non ha mai in vita sua preso in mano un libro di medicina. Incalzato da tutte le parti, con malati che vengono a lui da tutto il mondo. Edgar fa due consultazioni il giorno, sempre in presenza di medici e sempre senza onorario. Le sue diagnosi e le sue prescrizioni terapeutiche sono esatte; ma quando egli si sveglia dallo stato di trance in cui è caduto, non sa più nulla di quanto ha detto. Quando i membri della commissione gli chiedono come giunge alle sue diagnosi, Edgar risponde che gli sembra di potersi porre in contatto con qualsiasi cervello per trarne le cognizioni che gli occorrono per la sua diagnosi. Ma poiché anche il cervello del paziente sa benissimo che cosa manca al corpo, la cosa diventa facilissima: egli interroga il cervello del malato e poi cerca in tutto il mondo il cervello che gli sappia dire che cosa si deve fare. Egli stesso, diceva Edgar, era soltanto una parte di tutti i cervelli… Un’idea sbalorditiva, che, trasportata nel nostro mondo tecnico, potrebbe svilupparsi così: a New York un gigantesco computer viene alimentato con tutti i dati della fisica fino ad oggi conosciuti: in qualunque momento e da qualunque luogo sia interrogato, darà le sue risposte in poche frazioni di secondo. Un altro computer è collocato a Zurigo, e in esso viene immagazzinato tutto il sapere umano nel campo della medicina. A Mosca un terzo computer accoglie tutti i dati della biologia, un quarto al Cairo inghiotte tutte le cognizioni di astronomia: insomma, in diversi centri mondiali tutta la conoscenza umana, ordinata in categorie, viene immagazzinata in vari computer, posti fra di loro in collegamento radio. Così il computer del Cairo, richiesto di notizie mediche, in pochi centesimi di secondo inoltrerà la domanda al computer di Zurigo. La funzione del cervello di Edgar Cayce doveva corrispondere pressappoco a un collegamento simultaneo di questo genere, che è del tutto concepibile e già tecnicamente realizzabile. L’idea fantastica, la speculazione audace sarebbe questa: che avverrebbe se tutti i cervelli umani, o almeno quelli bene addestrati, disponessero di forme di energia ancora sconosciute e avessero la possibilità di porsi in contatto con tutti gli esseri viventi? Le nostre conoscenze sulle funzioni e le possibilità del cervello umano sono spaventosamente scarse; ci è noto però che nel cervello dell’uomo sano lavora solo un decimo della corteccia. Che cosa fanno gli altri nove decimi? è noto, e scientificamente dimostrato, il fatto che alcuni uomini sono guariti da mali insanabili ad opera della volontà, e di nient’altro. Forse perché, grazie a un “contatto” a noi sconosciuto, si sono messi all’opera altri due o tre decimi della corteccia? Se supponiamo che nel cervello lavorino le più potenti forme di energia, un forte impulso spirituale potrebbe essere percepito ovunque simultaneamente. E se la ricerca riuscisse a dimostrare l’esistenza di un tale pensiero “allo stato elementare”, allora tutte le intelligenze dell’Universo potrebbero appartenere alla stessa sconosciuta struttura. Serviamoci anche noi di un esempio. Se in un bacino contenente miliardi di batteri si somministra in un punto qualsiasi un forte impulso elettrico, questo impulso è avvertito in ogni punto e da ogni specie di batteri. La scossa elettrica sarebbe sentita ovunque simultaneamente. Ci rendiamo conto che il paragone zoppica, perché l’elettricità è una forma di energia nota, e legata alla velocità della luce, mentre noi intendiamo una forma di energia che sarebbe ovunque e simultaneamente presente e attiva. Noi vogliamo solo abbozzare l’intuizione di una forma d’energia non ancora identificata, che un giorno renderà comprensibile l’incomprensibile. Per dare a questa inconcepibile ipotesi un soffio di verosimiglianza citeremo un esperimento condotto il 29 e 30 maggio 1965, unico nel suo genere come portata e come carattere. In quei due giorni 1.008 persone nello stesso momento, anzi nello stesso secondo, si concentrarono su immagini, frasi e gruppi di simboli che furono dai loro cervelli, concentrando le forze, “proiettati” nello spazio. Ora, se questo esperimento di massa è di per sé veramente sbalorditivo, ancor più singolari sono i suoi risultati. Nessuna delle persone che partecipavano all’esperimento conosceva le altre; i partecipanti vivevano a centinaia di chilometri di distanza l’uno dall’altro; eppure, rispondendo su un modulo stampa, il 2,7 per cento dei partecipanti dichiararono di aver visto un’immagine, e precisamente un modello atomico. Poiché era impossibile che le “cavie” si fossero messe d’accordo fra loro, è sorprendente che il 2,7 per cento affermasse di aver visto la stessa immagine mentale. Telepatia? Gioco di bussolotti? Caso? Ammettiamo pure che tutto questo abbia qualcosa di fantascientifico: ma l’esperimento, ideato e condotto da scienziati, è realmente avvenuto. Chi crederà dunque che siamo arrivati al limite estremo delle nostre conoscenze? Altrettanto inspiegabile è un fatto accertato da un gruppo di fisici dell’università di Princeton: esaminando la disintegrazione del mesone K, elettricamente neutro, si giunse a un risultato che teoricamente non avrebbe dovuto prodursi, poiché era in contraddizione col già dimostrato principio dell’invarianza dei tempi della fisica nucleare, secondo cui i processi di particelle elementari sono considerati cronologicamente reversibili. Ed ecco un altro esempio clamoroso: la teoria della relatività afferma che massa e energia sono solo due diverse manifestazioni di uno stesso fenomeno (E = m*(c^2)). In parole povere, si può letteralmente creare la massa dal nulla, facendo passare ad alta velocità un intenso raggio d’energia in modo che sfiori un pesante nucleo atomico: il raggio d’energia sparisce nel potente campo elettrico del nucleo atomico e al suo posto sorgono un elettrone e un positrone. L’energia irradiante si è trasformata nella massa di due elettroni. Per la mente comune, che non abbia una formazione scientifica, il fatto sembra assurdo; e tuttavia avviene precisamente così. Non è una colpa essere incapaci di seguire Einstein; uno scienziato ebbe a chiamare Einstein “il grande solitario”, perché forse c’era solo una dozzina di suoi contemporanei con cui egli potesse parlare della sua teoria. Dopo questa digressione nei campi ancora inesplorati della trasmissione del pensiero e della funzione del cervello umano, torniamo al presente. Non è un mistero che nel novembre 1961, al National Radio Astronomy Observatory di Green Bank (Virginia occidentale), undici eminenti scienziati si incontrarono in un convegno segreto. Tema dell’incontro era anche qui il problema dell’esistenza di intelligenze extraterrestri. Gli scienziati – fra i quali Giuseppe Cocconi, Su-Shu Huang, Philip Morrison, Frank Drake, Otto Struve, Cari Sagan e anche il premio Nobel Melvin Calvin – alla fine del convegno si accordarono sulla cosiddetta equazione di Green Bank: in base a questa formula solo nella nostra galassia esistono in ogni momento fino a 50 milioni di diverse civiltà che o cercano esse stesse di entrare in collegamento con noi o attendono segnali dagli altri pianeti. I membri dell’equazione di Green Bank non comprendono solo tutti gli aspetti in questione: gli scienziati hanno proposto per ogni membro due valori, un valore normale ammissibile in base alle conoscenze odierne e un valore minimo assoluto:
N = R*Fp*Ne*Fl*Fi*Fc*L in cui:

R = la misura media delle stelle simili al nostro Sole che compaiono annualmente

Fp = la frazione di stelle con presumibili esseri viventi

Ne = il numero medio di pianeti che girano intorno all’ecosfera del loro sole, e che, perciò, secondo i criteri umani, offrono le condizioni necessarie e sufficienti per lo sviluppo della vita 

Fl = il numero di pianeti privilegiati sui quali può essersi effettivamente sviluppata la vita 

Fi = il numero dei pianeti abitati che durante il periodo di vita del loro sole ospitano esseri intelligenti dotati di capacità d’azione indipendente 

Fc = il numero di pianeti abitati da esseri intelligenti che già possiedono una civiltà tecnica altamente sviluppata 

L = la durata di una civiltà, poiché solo due civiltà di lunga durata potrebbero incontrarsi nel cosmo, date le enormi distanze. 

Ora, se per tutti i valori di questa equazione si propongono i valori numerici più bassi in senso assoluto, avremo: N = 40 Se invece prendiamo i valori massimi ammissibili, avremo: N = 50.000.000 La fantastica equazione di Green Bank calcola dunque per il caso più sfavorevole quaranta gruppi di esseri intelligenti nella nostra galassia che cercano di porsi in contatto con altri esseri intelligenti. La possibilità più audace arriva a cinquanta milioni di intelligenze extraterrestri che attendono segnali dal cosmo. Gli argomenti di Green Bank non si basano sul nostro tempo presente: i calcoli partono dal numero di stelle della nostra galassia, da quando essa esiste. Se accettiamo l’equazione stabilita da quel brain trust di scienziati, dobbiamo ammettere la possibilità che centomila anni fa siano esistite civiltà tecnicamente più perfette della nostra: fatto che viene a suffragare la teoria da noi sostenuta di una visita degli “dei” provenienti dal cosmo nella più remota antichità. L’astrobiologo americano Sagan assicura che in base a semplici calcoli statistici esiste la possibilità che la nostra Terra almeno una volta nel corso della sua storia sia stata visitata da rappresentanti di una civiltà extraterrestre. Anche se in tutte le argomentazioni e le supposizioni possono celarsi elementi fantastici e visionari, la formula di Green Bank ci dà la possibilità di determinare il numero delle stelle sulle quali è possibile la vita. Un nuovo ramo della scienza sta aprendosi, ossia la exobiologia. Per i nuovi rami della ricerca scientifica è sempre difficile ottenere il riconoscimento della propria legittimità: e per l’exobiologia sarebbe particolarmente difficile imporsi se fin da ora non ci fossero illustri personalità della scienza che dedicano il loro lavoro a questo nuovo campo di ricerca, volto a studiare la vita extraterrestre. Per apprezzare al suo giusto valore la serietà della nuova ricerca è sufficiente considerare il gruppo di nomi che vi sono interessati:
Freeman Quimby (capo del programma exobiologico della NASA),
Ira Blei (NASA),
Joshua Lederberg (NASA),
L. P. Smith (NASA),
R. E. Kaj (NASA),
Richard Young (NASA),
H. S. Brown (California Institute of Technology),
Edward Purcell (professore di fisica all’Università di Harvard),
R. N. Bracewells (Radio Astronomy Institute Standford),
Townes (premio Nobel per la fisica 1964),
I. S. Shklovsky (Istituto Sternberg, Mosca),
N. S. Kardascev (Istituto Sternberg, Mosca),
Sir Bernard Lovell (Jodrell Bank),
dr Wernher von Braun (capo del programma razzi Saturno negli USA),
Oberth (maestro di von Braun),
Stuhlinger, E. Sanger e molti altri.

Abbiamo citato solo un piccolo gruppo delle molte migliaia di exobiologi in tutto il mondo. Questi uomini si propongono di distruggere i tabù, di abbattere il muro di indifferenza e letargo che finora ha circondato i campi di ricerca cui qui abbiamo specificamente accennato. Malgrado tutte le opposizioni, una exobiologia esiste e potrà un giorno diventare il più interessante e il più importante fra i campi di ricerca scientifica. Ma come è possibile dimostrare l’esistenza della vita nello spazio, prima di esservi stati? Vi sono statistiche e calcoli che confermano decisamente la possibilità della vita extraterrestre. È dimostrata l’esistenza di spore e batteri dell’Universo. La ricerca di esseri intelligenti extraterrestri è già cominciata, ma non sono ancora stati prodotti risultati che siano visibili, misurabili e convincenti. Noi abbiamo bisogno di documenti per le nostre teorie, di dimostrazioni per le nostre congetture, squalificate oggi ancora come utopistiche. La NASA ha un programma di ricerche ben determinato, che dovrà portare la prova dell’esistenza di vita extraterrestre nel cosmo. Otto diverse sonde, ognuna unica nel suo genere ed estremamente complessa, devono portare le prove della vita sui pianeti del nostro sistema solare. Ecco le sonde progettate: Optical Rotary Dispersion Profiles, The Multivator, The Vidicon Microscope, The J-Band Life Detector, The Radioisotope Biochemical Probe, The Mass Spectrometer, The Wolf Trap (Trappola di Lupo), The Ultraviolet Spectrophotometer. Accenniamo brevemente a ciò che si cela dietro queste denominazioni tecniche impenetrabili al profano: “Optical Rotary Dispersion Profiles” è il nome di una sonda di laboratorio con una lucesonda girevole. Questa luce, approdata su un pianeta, comincia ad emettere raggi e a cercare la presenza di molecole. Come è noto, la molecola è il presupposto per ogni genere di vita organica. Una di queste è la grande molecola spiraliforme di DNA, (acido desossiribonucleico). Quando la luce polarizzata incontra una molecola di zucchero, il piano di vibrazione della luce ruota, perché la base azotata adenina, in composizione chimica con lo “zucchero” (desossiribosio), diviene “otticamente attiva”. Poiché il legame “zucchero” nella molecola di DNA è otticamente attivo, basta che il raggio-sonda incontri una combinazione zucchero-adenina perché venga emesso immediatamente un segnale il quale, trasmesso automaticamente sulla Terra, fornisce la prova della presenza di vita organica su un pianeta. Il “Multivator” è una piccola sonda, del peso di soli 500 grammi, che viene aggiunta al carico di un razzo e sganciata in vicinanza di un pianeta. Questo laboratorio in miniatura è in grado di compiere fino a 15 esperimenti diversi, trasmettendo i risultati sulla Terra. La sonda ufficialmente denominata “Radioisotope Biochemical Probe”, ma nota col soprannome di “Gulliver”, è destinata ad atterrare dolcemente sulla superficie di un pianeta dove dovrà espellere in diverse direzioni tre funi viscose lunghe 15 metri. Dopo alcuni minuti queste funi sono fatte automaticamente rientrare nella sonda, e ciò che è rimasto attaccato alla loro superficie viscosa – polvere, microbi o qualsiasi altra sostanza biochimica – viene immerso in un liquido di cultura. Una parte di questa soluzione è arricchita con l’isotopo radioattivo del carbonio C14: di conseguenza i microrganismi introdotti dovrebbero produrre coi loro processi metabolici biossido di carbonio, CO2. Questo gas si può facilmente separare dal liquido di cultura e avviare a uno strumento di misurazione il quale misurerà la radioattività del gas contenente nuclei di C14 e trasmetterà i risultati sulla Terra. Infine descriveremo ancora uno di questi strumenti che la NASA ha ideato per la ricerca della vita extraterrestre: la cosiddetta “trappola del lupo”. Questo mini-laboratorio era stato originariamente battezzato dal suo inventore Bug-Detector, ma i suoi collaboratori gli affibbiarono il nomignolo di “Trappola del Lupo” perché il loro capo si chiama Wolf Vishnia (Wolf in inglese e in tedesco significa lupo). La “trappola” dunque deve atterrare dolcemente sulla superficie di un pianeta e qui emettere un tubo a vuoto pneumatico, con una punta molto fragile. Come il tubo tocca il terreno, la punta si spezza e grazie al vuoto così prodottosi vengono aspirati campioni di ogni genere del suolo. Anche questa sonda contiene diversi brodi di cultura sterili, che garantiscono a ogni tipo di batteri un rapido sviluppo. Questo moltiplicarsi dei batteri ha per conseguenza di intorbidare il chiaro liquido di cultura, e di modificare inoltre il valore pH del liquido stesso (il valore pH indica il grado di acidità di un acido). Entrambe queste alterazioni si possono facilmente e sicuramente misurare: l’intorbidarsi del liquido mediante un raggio di luce e una cellula fotoelettrica, e l’alterazione dell’acidità mediante una misurazione elettrica del pH. Dai risultati si potrebbero trarre conclusioni sulla presenza di vita organica sul pianeta. Milioni di dollari sono assegnati al programma NASA e agli studi ad esso coordinati per la ricerca e la dimostrazione dell’esistenza di vita extraterrestre. Le prime biosonde devono venir lanciate su Marte: e senza dubbio questi strumenti pionieri, questi mini-laboratori, saranno seguiti dall’arrivo dell’uomo. I responsabili della NASA concordano nel ritenere che i primi astronauti potranno atterrare su Marte al più tardi il 23 settembre 1986. Questa data precisa ha le sue buone ragioni: il 1986 sarà un anno di minima attività solare.  Von Braun sostiene che già nel 1982 gli uomini potrebbero atterrare su Marte: gli uomini della NASA non mancano di preparazione tecnica, ma solo di un sufficiente e continuo stanziamento di fondi da parte del Congresso degli Stati Uniti. Oltre a tutti gl’impegni correnti degli Stati Uniti, due pesi finanziari come la guerra del Vietnam e il programma spaziale alla lunga diventano un carico insopportabile anche per la nazione più ricca del mondo. L’orario di partenza per Marte è stabilito: la nave spaziale per Marte è già ideata. Dev’essere “solo” materialmente costruita: il modellino relativo è già pronto sulla scrivania di un uomo straordinario, Ernst Stuhlinger, a Huntsville. Stuhlinger è il direttore del Research Project Laboratory, che appartiene al George Marshall Space Flight Center di Huntsville, Alabama. Nei suoi laboratori lavorano oltre cento scienziati, che conducono esperimenti nel campo della plasmofisica, della fisica nucleare e della termofisica e inoltre si occupano di ricerche preliminari per altri progetti dell’avvenire. Le ricerche sul motore elettrico per i razzi di domani sono per sempre legate al nome di Stuhlinger, il quale è il costruttore della nave spaziale per Marte, che porterà già nel nostro secolo gli uomini sul rosso pianeta. Stuhlinger fu chiamato negli Stati Uniti subito dopo la seconda guerra mondiale insieme al suo amico Wernher von Braun; a Fort Bliss essi progettarono vari tipi di razzi per l’aviazione americana. Allo scoppio della guerra di Corea, i due pionieri della missilistica, accompagnati da 162 connazionali, si trasferirono a Huntsville per dar vita a un progetto quale persino l’America, abituata alle manie del colossale, non aveva ancora mai visto. Huntsville era allora un piccolo paesino sonnolento sulle pendici dei Monti Appalachi. Con l’arrivo degli uomini dei razzi la modesta cittadina di cotonieri si trasformò in un circo equestre: officine, piste di collaudo, laboratori, hangar giganteschi e uffici in lamiera ondulata spuntarono in due anni dal suolo con rapidità vertiginosa. Oggi a Huntsville vivono più di 150.000 uomini; la cittadina si è destata dal suo sonno e i suoi abitanti sono divenuti fanatici seguaci del volo spaziale. Quando sulla pista di collaudo rombò il primo razzo Redstone, molti dei suoi cittadini corsero ancora terrorizzati a rifugiarsi nelle cantine delle loro case. Quando oggi si collauda un razzo Saturno e un fragore assordante riempie l’aria, come se da un momento all’altro stesse per crollare il mondo, nessuno se ne preoccupa più. Gli abitanti di Huntsville portano sempre con sé i loro paraorecchi, come i gentiluomini della City di Londra portano il loro ombrello. Chiamano addirittura la loro città “Rocket-City”, e quando il Congresso esita a stanziare i miliardi richiesti per il programma spaziale, si arrabbiano e cominciano a rumoreggiare. E non hanno tutti i torti di essere orgogliosi dei loro “tedeschi”, poiché Huntsville è diventata il maggior centro della NASA. Qui sono stati ideati e costruiti i razzi che hanno riempito le prime pagine di tutti i giornali del mondo, dal piccolo Redstone al gigantesco “Saturno V”, che insieme con “Apollo 11”, “Lem” e “Modulo di servizio” forma il cosiddetto treno lunare. Gli Stati Uniti hanno investito nel programma Luna circa 16.000 miliardi di lire. Alla partenza i serbatoi sono pieni di 4 milioni di litri di combustibile altamente esplosivo, che sviluppa una potenza di 150.000.000 cavalli vapore. Il razzo gigante pesa quasi 3.000 tonnellate. A Huntsville, sotto la direzione di Wernher von Braun, circa 7.000 tecnici, ingegneri e scienziati di discipline affini lavorano al grande obiettivo della conquista del cosmo. Ad esempio, nel 1967 circa 300 mila scienziati di tutte le specialità con i loro assistenti lavoravano al programma spaziale complessivo degli Stati Uniti; oltre 20.000 ditte industriali hanno collaborato alla più colossale impresa scientifica della storia. Lo scienziato austriaco Pescherra, in occasione di una mia visita a Huntsville, ebbe a dirmi che i gruppi di ricerca dovevano continuamente ideare “nuovi articoli”, che non venivano prodotti e venduti ancora in nessuna parte del mondo.”Osservi un po’,” mi disse additando un enorme cilindro dentro il quale si sentiva ronzare e rombare. “Qui facciamo esperimenti di lubrificazione sotto vuoto pneumatico. Sa Lei che non possiamo adoperare nessuno degli innumerevoli lubrificanti prodotti in tutto il mondo? Nello spazio perdono del tutto il loro potere lubrificante. Con i lubrificanti oggi in commercio, anche il più semplice elettromotore nello spazio privo d’aria cessa di funzionare dopo mezz’ora al massimo. Non ci resta altro se non cercare un lubrificante che continui a lubrificare egregiamente anche nel vuoto.” Da un altro reparto giungeva un rombo spaventoso misto a gemiti e stridore. Due enormi morse saldamente ancorate al suolo cercavano di lacerare una lastra di metallo dello spessore di 10 centimetri. “Un’altra serie di esperimenti che saremmo ben lieti di risparmiarci” disse Pescherra. “Ma le nostre esperienze hanno dimostrato che le leghe metalliche esistenti non rispondono alle esigenze dello spazio: siamo perciò costretti a scoprirne altre che siano adeguate alle nuove condizioni. Di qui queste prove di resistenza e queste ricerche sul limite di frattura in tutte le condizioni spaziali immaginabili. Dobbiamo anche escogitare nuovi processi di saldatura: le saldature debbono essere sottoposte a prove di freddo, di caldo, di vibrazione, trazione e pressione, per poter stabilire i limiti entro i quali la saldatura tiene.” La hostess che mi accompagnava gettò un’occhiata al suo orologio. Pescherra gettò uno sguardo all’orologio. Tutti guardavano l’orologio. Gli uomini della NASA ormai lo fanno senza accorgersene: il visitatore dapprima osserva incuriosito, poi si abitua al fatto che lo sguardo all’orologio è divenuto un gesto abituale degli uomini della NASA a Cape Kennedy, a Houston, a Huntsville. Sembra che stiano continuamente seguendo un conto alla rovescia: quattro… tre… due… uno… via! Dopo lunghe camminate per sale, corridoi, porte, e dopo un buon numero di controlli arrivammo a un certo signor Pauli, originario anch’egli dell’Europa di lingua tedesca, che da tredici anni lavora alla NASA. Mi posero sulla testa un elmo bianco con le insegne della NASA e il signor Pauli mi condusse al posto di collaudo del Saturno V. La semplice espressione “posto di collaudo” indica un colosso di cemento che pesa parecchie centinaia di tonnellate, è fatto a diversi piani cui si accede mediante ascensori e gru, è circondato di rampe ed ospita un’immensa e complicatissima rete di diversi chilometri di cavi. L’accensione del Saturno V produce un boato che si sente a 20 chilometri dal punto di partenza. Il posto di collaudo, saldamente ancorato nella roccia e nel cemento, durante queste prove sobbalza sollevandosi fino a otto centimetri dalle fondamenta, mentre un milione e mezzo di litri di acqua al secondo vengono pompati per il raffreddamento mediante un sistema di chiuse. Solo per il raffreddamento durante le prove al posto di collaudo si dovette costruire una pompa che avrebbe potuto senza fatica provvedere acqua potabile a una grande città come Dusseldorf. Un solo esperimento di accensione costa tondi tondi 780 milioni di lire! La conquista dello spazio non si può fare a buon mercato… Huntsville è uno dei centri NASA. Eccone l’elenco, ch’è bene annotare, perché in futuro ognuno di questi centri potrà essere stazione di partenza di voli spaziali: Armes Research Center, Moffett Field (California) Electronics Research Center, Cambridge (Massachusetts) Flight Research Center, Edwards (California) Goddard Space Flight Center, Greenbelt (MD) Propulsory Laboratory, Pasadena (California) John F. Kennedy Space Center (Florida) Langley Research Center, Hampton (VA) Lewis Research Center, Cleveland (Ohio) Manned Spacecraft Center, Houston (Texas) Nuclear Rocket Development Station, Jackass Flats Pacific Launch Operations Office, Lompoc (California) Wallops Station, Wallops Island (VA) Western Operations Office, Santa Monica (California) NASA-Head-Quartier, Washington DC L’industria delle astronavi ha raggiunto e superato da gran tempo l’industria automobilistica, che era l’elemento determinante della vita economica americana. Ad esempio, alla stazione spaziale di Cape Kennedy il luglio 1967 lavoravano 22.828 uomini: il bilancio annuale – solo di questa stazione – raggiungeva nel 1967 i 475.784.000 dollari. E tutto questo soltanto perché alcune teste matte hanno voluto salire sulla Luna? Abbiamo dato, crediamo, esempi abbastanza convincenti di ciò che già oggi noi dobbiamo, come sottoprodotti, alle ricerche spaziali, a cominciare da taluni utensili d’uso quotidiano per arrivare a complicati strumenti chirurgici che ogni giorno, ogni ora salvano vite umane in tutto il mondo. La supertecnica che si trova in via di sviluppo non è un male per l’umanità: la trasporta a passo da gigante verso un futuro, che ogni giorno ricomincia di nuovo. L’autore di queste pagine ha avuto la possibilità di intervistare Wernher von Braun chiedendogli il suo parere sulle ipotesi qui esposte: Ritiene Lei possibile, dr von Braun, che si trovi la vita su altri pianeti del sistema solare? “Ritengo possibile che sul pianeta Marte si rinvengano forme inferiori di vita.” Lei ritiene possibile che l’uomo non sia l’unico essere intelligente nel cosmo? “Ritengo del tutto verosimile che negli infiniti spazi dell’Universo esistano, non solo vita vegetale e animale, ma anche esseri viventi dotati di intelligenza. La scoperta di tale vita è un compito estremamente interessante e affascinante, ma, date le immense distanze fra il nostro e gli altri sistemi solari, è le distanze ancor maggiori fra la nostra galassia e gli altri sistemi galattici, è dubbio che si riesca mai ad accertare l’esistenza di tali forme di vita o a entrare con esse in diretto contatto.” Si potrebbe pensare che nella nostra galassia vivano o siano vissuti esseri intelligenti più antichi e tecnicamente più progrediti? “Non abbiamo finora nessuna prova e nessun indizio che vivano o siano vissuti nella nostra galassia degli esseri intelligenti più antichi e tecnicamente più progrediti di noi. Tuttavia, sulla base di considerazioni statistiche e filosofiche io sono convinto dell’esistenza di tali esseri viventi più progrediti. Devo però osservare che non disponiamo di alcuna base solida, scientifica, per appoggiare questa convinzione.” Esiste la possibilità che esseri intelligenti più antichi di noi, in una remotissima antichità, abbiano fatto visita alla nostra Terra? “Non voglio negare questa possibilità. Tuttavia, per quanto mi è noto, finora nessuno studio archeologico ha offerto le basi per tali speculazioni.” Qui termina l’intervista con l’indaffaratissimo “Padre di Saturno”. Purtroppo l’autore non ha potuto sottoporgli in tutti i particolari l’enorme quantità di singolari scoperte, di discordanze che i vecchi libri ci hanno lasciato come misteri insoluti, gli innumerevoli problemi che i rinvenimenti archeologici presentano quando siano osservati con l’occhio dell’astronauta.

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