
“Dei” e uomini si accoppiavano volentieri
Un’altra visione di strani veicoli – Dati sulle forze d’accelerazione
Il primo rapporto sulla Terra vista da un’astronave
Un superstite del diluvio racconta – Che cos’è la “verità”?
All’inizio del nostro secolo sulla collina di Qoyungiq si fece una scoperta sensazionale: inciso su dodici tavole d’argilla si rinvenne un poema epico di straordinaria forza espressiva, che apparteneva alla biblioteca del re assiro Assurbanipal. Il poema era scritto in lingua accadica: in seguito se ne rinvenne un secondo esemplare, che risale al re Hammurabi. Senza alcun dubbio la versione originaria dell’epopea di Gilgamesh si deve attribuire ai sumeri, popolo misterioso di cui ignoriamo l’origine, ma che ci ha lasciato le sorprendenti serie numeriche e una grandiosa astronomia. È anche evidente che il filo conduttore del poema di Gilgamesh corre parallelo alla Genesi della Bibbia.
Sulla prima tavola d’argilla di Qoyungiq si racconta come il vittorioso eroe Gilgamesh abbia costruito le mura di Uruk. Vi si legge che il “dio del cielo” abitava in una nobile dimora fornita di granai e che sulle mura della città vegliavano le sentinelle. Dovete sapere che Gilgamesh era un misto di “dio” e uomo: per due terzi “dio”, per un terzo uomo. I pellegrini che venivano a Uruk guardavano con stupore e paura la sua poderosa persona, perché non avevano mai visto nulla di simile come bellezza e forza. Anche qui dunque, all’inizio della storia, torna il motivo di un accoppiamento fecondo di “dio” e uomo.
La seconda tavola riferisce come un’altra figura mitica – Enkidu sia stata creata dalla dea del cielo Aruru. Enkidu è descritto con molta precisione: ha tutto il corpo coperto di peli, nulla sa del paese e della gente, è vestito di pelli, si ciba delle erbe dei campi e beve con gli animali alla stessa fonte, e anche nelle onde si muove con la sveltezza del popolo dell’acqua. Quando Gilgamesh, re della città di Uruk, sente parlare di questo essere così poco attraente, ordina che si dia al primitivo una bella donna, per toglierlo di mezzo al bestiame. Enkidu, il primitivo, cade nella trappola tesagli dal re (se con piacere o no, la storia non dice) e passa sei giorni e sei notti con la bellissima donna semidivina. Questo piccolo lenocinio regale ci dà da pensare: in un mondo barbarico non è frequente il motivo di un accoppiamento fra esseri semidivini e essere semianimali.
E la terza tavola ci racconta ancora una volta di una nuvola di polvere che veniva da lontano: tonò il cielo e tremò la Terra e infine il “dio del sole” scese e afferrò Enkidu con le ali e gli artigli potenti. Si legge con stupore che nel corpo di Enkidu sopravvenne come una pesantezza di piombo e il peso del suo corpo gli parve il peso di una roccia. Concediamo pure il più possibile alla fantasia degli antichi narratori, togliamo pure le aggiunte dei traduttori e dei copisti, ma resta sempre il lato enigmatico della narrazione: come potevano gli antichi cronisti sapere che a una determinata accelerazione un corpo diviene pesante come piombo? Noi conosciamo le leggi della gravitazione e dell’accelerazione: e se un astronauta alla partenza si sente schiacciare nel suo abitacolo da un peso di parecchie atmosfere, il fenomeno è calcolato in anticipo. Ma quale fantasia poteva suggerire questo motivo agli antichi cronisti?
La quinta tavola ci racconta come Gilgamesh e Enkidu si ponessero in viaggio per andare a visitare insieme la dimora degli “dei”. La torre dove abitava la dea Irninis raggiava da lontano. Le frecce e i giavellotti che i prudenti visitatori lanciarono alle sentinelle rimbalzarono indietro senza effetto. E quando raggiunsero la dimora degli “dei” una voce tuonò loro incontro: “Tornate indietro! Nessun mortale può salire sul monte sacro dove abitano gli dei, e chi vede il volto degli dei deve morire.” “Tu non puoi vedere la mia faccia, perché l’uomo non mi può vedere e vivere…” è detto nell’Esodo.
Sulla settima tavola leggiamo il primo rapporto di un testimonio oculare su un volo spaziale, fatto da Enkidu: per quattro ore egli aveva volato fra gli artigli bronzei di un’aquila. E questo è testualmente il suo racconto: “Egli mi disse: ‘Guarda giù sulla Terra: come ti appare? Osserva il mare: che te ne sembra?’ E la Terra era come un monte, e il mare come un piccolo corso d’acqua. E per altre quattro ore volò sempre più in alto e disse: ‘Guarda giù sulla Terra: come ti appare? Osserva il mare: che te ne sembra?’ E la Terra era come un giardino, e il mare come il rigagnolo di un giardiniere. E di nuovo volò ancora più alto per quattro ore e disse: ‘Guarda giù sulla Terra: come ti appare? Osserva il mare: che te ne sembra?’ E la Terra appariva come una farinata, e il mare come una pozza d’acqua.” Qui è chiaro che qualche essere dovette osservare il globo terrestre da grande altezza. La descrizione è troppo precisa per essere unicamente frutto della fantasia. Chi avrebbe potuto dire che la Terra era come una farinata e il mare come una pozza d’acqua, se non ci fosse stata ancora la minima idea della sfera terrestre “dall’alto”? Perché effettivamente la Terra, vista da una certa altezza, appare come un gioco di pazienza di farinata e pozze d’acqua. Se poi sulla stessa tavola si dice che una porta parlava come un uomo vivente, possiamo senza tanto pensarci identificare il bizzarro fenomeno come un altoparlante.
E nell’ottava tavola questo stesso Enkidu, che deve aver visto la Terra da una considerevole altezza, muore di una misteriosa malattia, così misteriosa che Gilgamesh si domanda se per caso non l’abbia colpito l’alito velenoso di un animale celeste. Ma da dove traeva Gilgamesh l’idea che l’alito velenoso di un animale celeste potesse provocare una malattia incurabile e mortale?
La nona tavola descrive Gilgamesh che piange la morte dell’amico Enkidu e decide di intraprendere un lungo viaggio per recarsi dagli dei, perché non riesce a liberarsi dal timore di morire anch’egli della stessa malattia di Enkidu. Il racconto della tavola prosegue con l’arrivo di Gilgamesh a due monti che reggevano il cielo, fra i quali si apriva la Porta del Sole. Sulla Porta del Sole egli incontra dei giganti, che dopo un lungo colloquio lo lasciano passare, perché per due terzi è egli stesso un dio. Infine egli trova il parco degli dei, dietro il quale si apre il mare infinito. Due volte gli dei ammoniscono Gilgamesh lungo il cammino: “Gilgamesh, dove corri? La vita che tu cerchi non la troverai. Quando gli dei crearono gli uomini, destinarono agli uomini la morte, e riservarono la vita per se stessi.” Ma Gilgamesh non ascolta consiglio: a costo di qualsiasi pericolo vuole arrivare a Utnapishtim, il padre degli uomini. Ma Utnapishtim vive al di là del grande mare, e nessuna via conduce fino a lui e nessuna nave varca quel mare tranne il dio del Sole.
Tra pericoli d’ogni sorta Gilgamesh attraversa il mare, e l’undicesima tavola ci può descrivere il suo incontro con Utnapishtim. Gilgamesh trova la figura del padre degli uomini non più grande né più alta della sua, e pensa ch’essi siano simili l’uno all’altro come il padre al figlio. E ora Utnapishtim racconta a Gilgamesh il proprio passato, parlando, cosa assai singolare, in prima persona. Con nostro grande stupore udiamo da Utnapishtim una descrizione molto precisa del diluvio: egli racconta che gli “dei” lo avvertirono del disastro imminente e gli diedero l’incarico di costruire un’imbarcazione e raccogliervi la sua famiglia e i suoi parenti, donne e bambini, e artigiani di tutte le arti.
La descrizione del diluvio, dell’eclissi, del crescere delle acque e della disperazione degli uomini ch’egli non poteva portare con sé ha una forza espressiva che ancor oggi ci avvince. Anche qui, come nella biblica storia di Noè, si narra come il corvo e la colomba furono fatti uscire dall’arca, e come infine, quando le acque si abbassarono, la barca approdò sulla vetta di un monte. Il parallelismo fra la narrazione biblica del diluvio e quella dell’epopea di Gilgamesh è indiscutibile, e non viene contestato da alcuno studioso. L’aspetto più affascinante, in questo parallelismo, è che abbiamo a che fare con altri segni premonitori e con altri “dei”. Se il racconto del diluvio nella Bibbia è di seconda mano, l’esposizione in prima persona nel racconto di Utnapishtim ci dice che nel poema di Gilgamesh parla un superstite, un testimone oculare. È oggi dimostrato senza possibilità di dubbio che nell’Antico Oriente, alcune migliaia di anni fa, si verificò una catastrofe diluviale. Antichi testi cuneiformi babilonesi indicano con molta esattezza dove si dovrebbero trovare i resti dell’arca: sulle pendici meridionali dell’Ararat si rinvennero tre frammenti di legno, che forse segnano il luogo dove l’arca approdò. Del resto le probabilità di ritrovare i resti di un’imbarcazione che era costruita in prevalenza di legno e sopravvisse a un diluvio più di seimila anni fa sono assolutamente minime. Nel poema di Gilgamesh troviamo non solo notizie di fatti antichissimi, ma anche descrizioni fantastiche che non possono essere state inventate da alcun cervello umano dell’epoca in cui le tavole ebbero origine, come non possono averle inventate traduttori o copisti dei secoli che seguirono. Infatti in quelle descrizioni si celano alcuni dati di fatto che, visti con gli occhi di oggi, dovettero esser noti agli autori del poema. Forse una nuova impostazione del problema potrà portare qualche luce in queste tenebre. È possibile che l’epopea di Gilgamesh si sia svolta non nel Medio Oriente, ma nella regione di Tiahuanaco? Si può pensare che i discendenti di Gilgamesh fossero venuti dal Sudamerica e avessero portato con sé il poema? Una risposta affermativa ci darebbe comunque una spiegazione dell’accenno alla Porta del Sole e alla traversata del mare, e insieme dell’improvvisa comparsa dei sumeri nella Mesopotamia: poiché tutte le successive creazioni babilonesi risalgono, com’è noto, ai sumeri. Certamente l’antica cultura egiziana dei faraoni disponeva di biblioteche in cui gli antichi misteri venivano conservati, insegnati, imparati e copiati. Mosè, come abbiamo già detto, fu allevato alla corte del faraone e certamente aveva accesso alle venerabili sale della biblioteca. Mosè era un gentiluomo intelligente e colto: pare che abbia scritto di sua mano la stesura originale di cinque dei suoi libri, anche se fino ad oggi la lingua ch’egli dovette usare in questa stesura resta ancora un mistero insoluto. Facciamo dunque l’ipotesi che l’epos di Gilgamesh sia giunto dai sumeri, attraverso l’Assiria e la Babilonia, fino in Egitto, e che qui il giovane Mosè lo abbia rinvenuto e adattato ai suoi scopi: in questo caso la storia autentica del diluvio non sarebbe quella biblica, ma quella sumerica… Forse non è lecito porre di questi problemi? A noi pare che il metodo classico di ricerca archeologica si sia arenato e non sia perciò in grado di giungere a risultati esatti, solidi e incontrovertibili. Si è troppo irrigidito in un modello concettuale che non lascia posto alla fantasia e alla congettura, che sole potrebbero dargli un impulso creativo. Molte possibilità di ricerca nell’antico Oriente sono certamente naufragate contro l’intoccabilità e la santità dei testi biblici. Davanti a tali tabù non si aveva il coraggio di porre domande e sollevare dubbi. I ricercatori, apparentemente così illuminati, del XIX e ancora del XX secolo erano prigionieri delle catene spirituali di errori millenari, perché l’esplorazione del passato veniva a porre in dubbio alcune parti del racconto biblico. Ma a questo proposito anche il più pio dei cristiani dovrebbe capire che molti fatti narrati nell’Antico Testamento non si accordano realmente con il concetto di un Dio buono, grande e onnipresente. Proprio chi voglia conservare intatte le verità di fede della Bibbia deve, o dovrebbe, essere interessato a chiarire chi creò realmente gli uomini nell’antichità, chi diede loro le prime norme del vivere sociale, chi impartì le prime regole igieniche e infine chi distrusse le genti che erano degenerate. Pensando e parlando così, noi non siamo atei. Siamo profondamente convinti che quando l’ultima domanda sul nostro passato avrà avuto una risposta autentica e convincente, resterà nell’infinito qualcosa che noi, in mancanza di un nome migliore, chiameremo dio. Tuttavia l’ipotesi che un Dio inconcepibile avesse bisogno per muoversi di veicoli con ali e ruote, si accoppiasse con creature primitive e non dovesse lasciar scorgere il suo viso, resta per noi fino a prova contraria una mostruosità e un assurdo. La risposta dei teologi, che Dio è saggio e noi non possiamo immaginare in quale forma Egli si mostrasse e tenesse soggetto il suo popolo, non rientra nell’ordine delle nostre ricerche ed è perciò insoddisfacente. Si vorrebbero chiudere gli occhi anche davanti alle realtà nuove. Ma il futuro intacca giorno per giorno anche il nostro passato. In dieci o dodici anni i primi uomini sbarcheranno su Marte. E se vi troveranno anche un solo antichissimo e abbandonato edificio, un solo oggetto che riveli un lavoro di esseri intelligenti, un disegno rupestre ancora riconoscibile, questi reperti metteranno in dubbio tutte le nostre religioni e sconvolgeranno il nostro passato. Una sola scoperta di tal genere opererà la più grande rivoluzione e la più grande riforma di tutta la storia umana. Non sarebbe più intelligente, in vista dell’inevitabile confronto col futuro, dare nuovi e più fantasiosi orizzonti ai ricordi del nostro ‘passato? Ben lungi dall’essere miscredenti, noi non possiamo più permetterci di esser ingenui. Ogni religione ha il suo schema teologico: ed è tenuta a pensare e a credere nell’ambito di questo schema. Ma intanto, con l’era spaziale, il giorno del giudizio spirituale si avvicina sempre più. Le nuvole teologiche dilegueranno, si lacereranno come brandelli di nebbia. Compiendo il passo decisivo nel cosmo, noi dovremo riconoscere che non ci sono due milioni di dei, che non ci sono ventimila sette o dieci grandi religioni, ma una sola. Continuiamo dunque ad elaborare la nostra ipotesi sull’utopistico passato dell’umanità. Fino a questo momento si prospetterebbe così:
In un’epoca remotissima e ancora indeterminata una astronave straniera scopre il nostro pianeta. L’equipaggio ben presto accerta che la Terra possiede le condizioni adatte allo sviluppo della vita intelligente. Certo l’uomo di allora non era ancora l’homo sapiens, ma qualcosa di ben diverso… Gli astronauti stranieri fecondarono ad arte alcuni esemplari femminili di questi esseri, li fecero sprofondare – come narrano alcune antiche leggende – in un sonno profondo e ripartirono. Alcune migliaia di anni dopo gli astronauti tornarono e trovarono alcuni singoli esemplari della specie homo sapiens: ripeterono allora diverse volte l’incrocio nobilitante, finché nacque un essere di intelligenza tale da potergli trasmettere le norme della vita associata. Ma gli uomini di quel tempo erano pur sempre barbari. E poiché v’era pericolo ch’essi subissero una regressione biologica e tornassero ad accoppiarsi con gli animali, gli astronauti sterminarono gli esemplari degenerati, o li presero con sé per trapiantarli su altri continenti. Sorsero le prime comunità e le prime tecniche: sulle pareti di rocce e di caverne comparvero i primi disegni rupestri, si inventò la ceramica e si fecero i primi tentativi di costruzione. Questi primi uomini avevano una timorosa reverenza per gli esseri dello spazio, che venivano dall’ignoto e sparivano nell’ignoto, e li considerarono come “dei”.
Per un motivo imperscrutabile questi “dei” erano interessati a perpetuare la specie degli esseri intelligenti. Proteggevano i loro “allevamenti”, li difendevano dalla corruzione e li tenevano lontani dal male. Miravano ad ottenere uno sviluppo positivo della loro comunità: eliminavano gli individui degeneri e si preoccupavano di dare agli altri le premesse per una società capace di svilupparsi e prosperare. Queste nostre congetture, lo ammettiamo, sono per ora un tessuto pieno di falle. “Mancano le prove” ci dirà qualcuno. Ma il futuro mostrerà come molte di queste falle possano venir colmate. Tuttavia, accanto alle teorie sulla cui base molte religioni vivono inviolate sotto la protezione dei loro tabù, vorremmo che anche alla nostra ipotesi si concedesse una percentuale minima di verosimiglianza. Forse sarebbe opportuno dire una parola a proposito della “verità”. Il credente che ha fede incrollabile nella sua religione è convinto di possedere la “verità”. E questo non vale solo per i cristiani: vale in egual misura anche per gli esponenti di altre grandi o piccole comunità religiose. Teosofi, teologi e filosofi hanno lungamente meditato sulle loro dottrine e sul loro maestro: e sono convinti di avere trovato la verità. Naturalmente ogni religione ha la sua storia, le sue brave promesse da parte del suo Dio; ha i suoi accordi con Dio, con i suoi profeti e i loro saggi maestri, che hanno detto… Le prove della “verità” partono sempre dal centro di una religione, e il risultato è un pensiero imprigionato dai dogmi, nell’ambito del quale noi siamo allevati fin dall’infanzia a pensare e a credere; e generazioni e generazioni hanno vissuto e vivono nella convinzione di possedere la “verità”. Più modestamente, noi pensiamo che non sia possibile possedere la “verità”. Si può, tutt’al più, credere in essa. Ma chi veramente cerca la verità non può e non deve cercarla solo sotto il segno e nell’ambito della sua propria religione: poiché in tal caso un’impresa di così alti intenti nascerebbe da presupposti viziati. Qual è insomma lo scopo e il fine della vita? Credere nella “verità” o cercarla? Anche se nella Mesopotamia si sono rinvenute prove archeologiche che valgono a confermare alcuni fatti narrati nell’Antico Testamento, questi fatti così testimoniati non sono ancora prove della “verità” della relativa religione. Quando si disseppelliscono in qualche luogo antichissime città, villaggi, fonti o iscrizioni, questi reperti dimostrano che la storia di quel popolo è autentica. Ma con questo non resta dimostrato che il dio di quel popolo sia stato il vero unico dio, e non piuttosto un astronauta. In tutto il mondo oggi gli scavi dimostrano che le tradizioni corrispondono alla realtà dei fatti. Ma qual mai cristiano, per esempio, si lascerebbe convincere dagli scavi del Perù a riconoscere come vero dio il dio della cultura preincaica? Noi riteniamo semplicemente che ogni mito celi in sé una vicenda storica realmente vissuta da un popolo: e nulla di più. Ma anche questo, ne siamo convinti, è molto. Chi dunque sinceramente cerca la verità non può respingere nuovi e audaci e non ancor dimostrati aspetti solo perché non rientrano nel suo schema mentale o religioso. Poiché cento anni fa non esisteva la navigazione spaziale, i nostri padri e i nostri nonni non potevano porsi il problema se i nostri remoti progenitori avessero o no ricevuto visite dal cosmo. Consideriamo per un momento la terribile, ma purtroppo possibile idea che la nostra civiltà attuale venga totalmente annientata da una guerra atomica. Fra 5.000 anni gli archeologi troveranno i frammenti della statua della libertà di New York. Secondo i nostri attuali schemi mentali gli archeologi del futuro dovrebbero affermare che si tratta di una divinità sconosciuta, probabilmente una divinità del fuoco (per via della fiaccola) o una divinità del Sole (per via dei raggi sulla testa della statua). E nessuno oserebbe asserire – se continuassero ad imperare gli schemi mentali del nostro tempo – che si possa trattare di una cosa semplicissima, ossia di una statua della libertà. Non è più possibile bloccare coi dogmi le vie che ci conducono al passato. Se ci vogliamo accingere alla difficile ricerca della verità, dobbiamo avere il coraggio di abbandonare i vecchi binari lungo i quali si è mosso finora il nostro pensiero e per prima cosa porre in dubbio tutto ciò che finora abbiamo creduto vero e giusto. Possiamo ancora continuare a chiudere gli occhi e tapparci le orecchie solo perché le nuove idee potrebbero apparire eretiche e irrazionali? Cinquant’anni fa l’idea di un atterraggio sulla Luna era assolutamente irrazionale.