MITI, STORIA E ARCHEOLOGIA

Vi furono in antichità cose che non avrebbero dovuto esistere

I vecchi cronisti avevano tutti la stessa fantasia stravagante?
E sempre ancora “carri celesti”!
Esplosioni atomiche nell’antichità?
Come si scoprivano i pianeti senza telescopio?
Il curioso calendario di Sirio
A nord niente di nuovo – Dove restavano gli antichi libri?
Ricordi della nostra epoca conservati per l’anno 6965
Che resterebbe di noi dopo una distruzione totale?

A giudicare dalle notizie e dalle considerazioni che abbiamo esposto finora, vi furono nell’antichità cose che, secondo le correnti concezioni, non avrebbero dovuto esistere. E la serie dei rinvenimenti che il nostro zelo di collezionisti va facendo è ancora ben lontana dall’essere conclusa. Anche la mitologia degli eschimesi afferma che le prime stirpi umane furono portate al nord da “dei” con ali di bronzo. Le più antiche leggende indie parlano di un grande Uccello del Tuono che portò loro il fuoco e il grano. E infine l’antica mitologia dei maya racconta (nel Popol Vuh) che gli “dei” sapevano tutto: l’Universo, i quattro punti cardinali e persino la figura rotonda della Terra. Perché gli eschimesi fantasticavano di uccelli di bronzo? Perché gli indiani raccontavano di un uccello del tuono? E come potevano gli antenati dei maya aver saputo che la Terra è rotonda? I maya erano un popolo intelligente e avevano una cultura altamente sviluppata. Non solo ci lasciarono un favoloso calendario, ma sapevano eseguire calcoli incredibili. Conoscevano l’anno di Venere, di 584 giorni, e stabilirono la durata dell’anno terrestre in 365,2420 giorni: si pensi che il calcolo esatto oggi è di 365,2422 giorni. Ci lasciarono calcoli fino a 64 milioni di anni: sulle iscrizioni più recenti figurano persino unità che probabilmente arrivano a 400 milioni di anni. La famosa equazione di Venere potrebbe persino essere stata calcolata da un cervello elettronico: comunque, è difficile pensare che sia stata elaborata da un popolo di selvaggi. L’”equazione di Venere” dei maya si presenta in questa forma: Il Tzolkin ha 260 giorni, l’anno terrestre 365 e l’anno di Venere 584 giorni. Queste cifre presentano una stranissima possibilità di divisione: il 365 è divisibile cinque volte per 73, il 584 otto volte. Ed ecco l’incredibile formula:

(Luna) 20x13x2x73 – 260x2x73 = 37.960
(Sole) 8x13x5x73 = 104x5x73 = 37.960
(Venere) 5x13x8x73 = 65x8x73 = 37.960

Dopo 37.960 giorni tutti i cicli verranno a coincidere. La mitologia afferma che allora gli “dei” verranno alla grande tappa. I popoli preincaici tramandarono nelle loro mitologie che le stelle erano abitate e che gli “dei” scendevano a loro dalla costellazione delle Pleiadi. Le iscrizioni cuneiformi sumeriche, assire, babilonesi ed egiziane ci presentano di continuo la stessa immagine: gli “dei” vengono dalle stelle e tornano alle stelle, traversano il cielo con navi o barche di fuoco, possiedono armi terribili e promettono ad alcuni uomini l’immortalità. È perfettamente comprensibile che gli antichi popoli cercassero i loro dei nel cielo e sbrigliassero la loro fantasia a descrivere coi più splendidi colori la magnificenza di queste misteriose apparizioni. Ma ammesso tutto questo, restano ancora troppe assurdità. Come sapeva, per esempio, il cronista del Mahabharata che può esistere un’arma capace di condannare un paese a dodici anni di sterilità? Che è così potente da uccidere i nascituri nel grembo delle loro madri? L’antico poema epico indiano che va sotto il nome di Mahabharata è più vasto della Bibbia, e, anche con una valutazione molto prudente, il suo nucleo centrale risale ad almeno 5.000 anni fa. Vale la pena di leggerne qualche pagina con nuovi occhi. Non possiamo più meravigliarci quando leggiamo nel Ramayana che le vimana, ossia macchine alate, navigavano a grande altezza con l’aiuto di argento vivo e di un grande vento propulsore. Le vimana potevano percorrere infinite distanze e navigare dal basso verso l’alto, dall’alto verso il basso e orizzontalmente da un punto all’altro. Invidiabile manovrabilità di quelle astronavi!

“Al comando di Rama lo splendido carro si levò con possente fragore verso un monte di nubi…”

Non vogliamo trascurare il fatto che ancora una volta il cronista non solo parla di un oggetto volante, ma di un possente fragore. In un altro punto del Mahabharata si legge:

“Bhima volò con la sua vimana su un immenso raggio che aveva lo splendore del sole e il cui fragore era come il tuonare della procella.”

Anche la fantasia ha bisogno di un punto di partenza. Come può il cronista darci continuamente descrizioni che presuppongono ogni volta l’idea del razzo interplanetario, e la nozione che un veicolo del genere può viaggiare su un raggio e provoca uno spaventoso fragore? Nel Samsaptakabadha si fa una distinzione fra carri che volano ed altri che non possono volare. Il primo libro del Mahabharata ci rivela la storia intima della vergine Kunti, che non solo ricevette la visita del Dio del Sole, ma ne ebbe anche un figlio, che era splendente come il Sole stesso. E poiché Kunti – già allora! – temeva di esser coperta di vergogna, pose il bambino in un cestello e lo abbandonò alla corrente di un fiume. Adhirata, un nobile uomo di casta Suta, ripescò il cestello dall’acqua e allevò il bambino. Non varrebbe la pena di accennare a questa favoletta se non avesse una somiglianza così straordinaria con la storia di Mosè. E ritorna di continuo il motivo della donna fecondata da un “dio”.Come Gilgamesh, anche Arjuna, l’eroe del Mahabharata, intraprese un lungo viaggio per cercare gli dei e chieder loro delle armi. E quando Arjuna, dopo innumerevoli pericoli, trova gli dei, gli viene incontro persino Indra, signore del cielo, in persona, con a fianco la sua sposa Sachi. E l’incontro col valoroso Arjuna non avviene in un luogo qualsiasi, ma in un carro da guerra celeste, e i due numi lo invitano persino a salire con loro in cielo. Nel Mahabharata si trovano dei dati numerici così precisi da dare l’impressione che l’autore sapesse esattamente quello che diceva. Descrive con orrore un’arma che poteva uccidere qualsiasi guerriero portasse sul suo corpo del metallo: se i guerrieri venivano informati in tempo dell’uso di quest’arma, si strappavano dal corpo ogni pezzo di metallo che portavano, balzavano in un fiume e lavavano a fondo se stessi e tutto ciò che avevano toccato. E non a torto, come ben sa l’autore, perché l’arma aveva l’effetto di far cadere tutti i capelli e le unghie delle mani e dei piedi. Ogni vivente, egli si lagna, diveniva pallido e debole. Nell’VIII libro incontriamo di nuovo Indra nel suo celeste carro raggiante di luce: fra tutti gli uomini egli ha scelto Judhisthira, l’unico che potrà entrare nel cielo con le sue spoglie mortali. Anche qui non ci si deve lasciar sfuggire il parallelo con i racconti di Enoch ed Elia. Nello stesso libro troviamo anche quello che è forse il primo resoconto di un’esplosione atomica: Gurkha da bordo di una possente vimana scaglia un unico dardo sulla triplice città. Il racconto usa vocaboli che ricordiamo di aver trovato nei rapporti di testimoni oculari sul lancio della prima bomba all’idrogeno, sull’atollo di Bikini: una nube di fumo bianco abbagliante, diecimila volte più chiaro del Sole, si è alzata in infinito splendore e ha ridotto in cenere la città. Quando Gurkha è ridisceso a terra, il suo carro era simile a un lucente blocco di antimonio. E i filosofi ricordino l’affermazione del Mahabharata che il tempo è il seme dell’Universo… Anche i due libri tibetani Kangiur e Tangiur ricordano aerei preistorici, che essi chiamano “perle nel cielo”. Entrambi i libri affermano espressamente che queste conoscenze sono segrete e non sono destinate al gran pubblico. Nel Samarangana Sutradhara vi sono interi capitoli che descrivono navi aeree dalla cui estremità sprizzano fuoco e mercurio. La parola “fuoco” nelle antiche scritture non significa probabilmente la vera e propria fiamma della combustione, poiché complessivamente si possono enumerare circa quaranta diverse specie di “fuoco”, che si riferiscono prevalentemente a fenomeni elettrici e magnetici. Ci riesce difficile credere che gli antichi popoli sapessero come e in qual modo dai metalli pesanti si possa ottenere energia. In questo campo comunque non è il caso di affidarsi a giudizi semplicistici e di liquidare gli antichi testi sanscriti in due parole come miti. I brani di opere antichissime che abbiamo già citato conferiscono un certo grado di certezza alla supposizione che nella più remota antichità gli uomini abbiano incontrato “dei” volanti. E col vecchio metodo, finora purtroppo considerato ineccepibile (“…nulla di tutto ciò esiste… si tratta di errori di traduzione… sono solo stravaganti esagerazioni degli autori o dei copisti”), non si va avanti di un passo. Ma con un nuovo schema concettuale, che sia sviluppato in base alle cognizioni tecniche del nostro tempo, possiamo sperar di illuminare il fitto mistero che cela ancora il nostro passato. Come è ancora da chiarire il fenomeno delle navi spaziali nella notte dei tempi, così il problema delle armi terrificanti, così spesso descritte e di cui gli dei in molti episodi fanno uso almeno una volta, resta ancora aperto ad un’interpretazione accettabile. Ci sono dei brani del Mahabharata che ci costringono a riflettere:

“Era come se gli elementi si fossero scatenati. Il Sole girava in cerchi. Il mondo bruciato dall’ardore dell’arma barcollava nelle vertigini della febbre. Gli elefanti riarsi dall’enorme calore correvano selvaggiamente su e giù, per trovar riparo dalla spaventosa violenza. L’acqua divenne bollente, gli animali morivano, il nemico fu falciato e l’infuriare del fuoco fece cadere gli alberi a mucchi, come suole nell’incendio dei boschi. Gli elefanti lanciavano orribili barriti e per largo tratto cadevano morti al suolo. I cavalli e i carri da guerra bruciavano e tutto sembrava come dopo un incendio. Migliaia di carri furono annientati, poi sul mare si stese una profonda quiete. I venti cominciarono a spirare e la terra si schiarì. Un orribile spettacolo si presentò. I cadaveri dei caduti erano orribilmente contorti dallo spaventoso calore, sì che non serbavano più aspetto di uomini. Noi non avevamo mai visto prima un’arma così orribile, né mai prima ne avevamo sentito parlare.”

Quelli che ne uscirono, continua il racconto, si lavarono e lavarono le loro armature e i loro dardi, perché tutto era coperto dall’alito mortale degli “dei”. Come era detto nel poema di Gilgamesh: “Ti ha forse colpito l’alito velenoso dell’animale celeste?” Alberto Tulli, già direttore della sezione egiziana dei Musei vaticani, rinvenne un frammento del tempo di Tuthmosi III, che visse intorno al 1500 a.C. Vi si narra che gli scribi videro scendere dal cielo un globo di fuoco, da cui usciva un alito graveolente: Tuthmosi e i suoi soldati osservarono lo spettacolo finché la sfera infuocata si innalzò in direzione sud e sparì alla vista. Tutti i testi citati risalgono a millenni prima della nostra era. I loro autori vivevano in continenti diversi e in diversi ambienti culturali e religiosi. Non esistevano agenzie d’informazione e i viaggi intercontinentali non erano all’ordine del giorno. Eppure da tutti i punti cardinali e dà innumerevoli fonti giungono fino a noi tradizioni che raccontano pressappoco la stessa cosa. Dunque, nei cervelli di tanti autori diversi, germogliavano le stesse fantasie? Erano tutti perseguitati nella stessa maniera dalla stessa follia? Non è possibile né pensabile che i cronisti del Mahabharata, della Bibbia, del poema di Gilgamesh, degli antichi testi degli eschimesi, degli indiani, dei popoli nordici, dei tibetani e di una quantità di altre fonti ci narrino per caso e senza un motivo le stesse storie di “dei” volanti, di strani carri celesti, e di spaventose catastrofi collegate a queste apparizioni. Non si può pensare che nelle diverse parti del mondo la fantasia lavori nello stesso modo. Questi racconti quasi uniformi possono aver preso spunto solo da dati di fatto, ossia da avvenimenti preistorici: si raccontava ciò che si era potuto vedere. Anche se il cronista – e da allora la cosa non è molto cambiata – amava, pur nella remota antichità, adornare con un po’ di fantasia le sue narrazioni, al centro di tutte le notizie esclusive resta, come oggi, il fatto di cronaca, la vicenda esattamente descritta. E questa vicenda non può essere stata completamente inventata in tanti luoghi e in tanti tempi diversi. Immaginiamo un esempio. Nella boscaglia africana atterra per la prima volta un elicottero. Nessun indigeno ha mai visto un ordigno del genere. Con orribile fragore l’elicottero atterra in una radura e ne saltano fuori piloti in tenuta da combattimento, con caschi di protezione e fucili mitragliatori. Il selvaggio col suo perizoma osserva incantato e sbalordito la cosa che è scesa dal cielo e gli “dei” sconosciuti. Dopo un certo tempo l’elicottero si solleva e scompare nell’aria.Rimasto solo, il selvaggio cerca di rendersi conto di ciò che ha visto. Descrive agli altri, che non erano presenti, la strana apparizione: un enorme uccello, un carro celeste che si muoveva con fragore e puzzo, esseri dalla pelle bianca, con armi che sputavano fuoco… La visita prodigiosa sarà fissata nella memoria e tramandata nei secoli a venire. E via via che ogni padre la racconta al figlio, l’uccello celeste non diventa certo più piccolo e gli esseri che ne sono usciti si fanno sempre più prodigiosi, più grandi e potenti. E molti altri accessori e fronzoli si aggiungeranno. Ma la splendida storia ha un nocciolo di verità: l’atterraggio dell’elicottero, il fatto che l’elicottero effettivamente si è posato nella radura della boscaglia e ne sono usciti i piloti. Da allora la vicenda continua a vivere nella mitologia della tribù. Vi sono cose che non si possono inventare. Noi non andremmo a rovistare nella nostra preistoria alla ricerca di astronauti e navi spaziali se di tali fenomeni si narrasse solo in due o tre vecchi libri. Ma se quasi tutti i testi dei popoli primitivi in tutto il globo terracqueo raccontano la stessa cosa, dobbiamo pur cercar di chiarire le verità obiettive che vi sono celate.
“Figlio d’uomo, tu abiti in mezzo a una stirpe ribelle, che ha occhi per vedere e non vede, orecchi per udire e non ode…” (Ezechiele, 12, 1).
Noi sappiamo che a tutti gli dei sumerici corrispondevano determinate stelle. Marduk = Marte, il dio supremo, pare avesse una statua di oro puro del peso di ottocento talenti, il che, se vogliam credere a Erodoto, corrispondeva a 24.000 chilogrammi del nobile metallo. Ninurta = Sirio era il giudice dell’Universo, che pronunciava le sentenze sugli uomini mortali.
Si sono rinvenute tavolette cuneiformi che erano rivolte a Marte, a Sirio e alle Pleiadi. Negl’inni e nelle preghiere dei sumeri troviamo continuamente menzionate armi divine che per la loro forma e per i loro effetti dovevano essere assolutamente inconcepibili in quei tempi. Un inno a Marduk dice com’egli facesse piovere fuoco e annientasse i suoi nemici con un lampo abbagliante. Inanna è descritta mentre compare nel cielo irradiando all’intorno una terribile luce accecante e distrugge le case del nemico. Si sono trovati disegni e persino il modellino di un edificio che è molto simile a un bunker atomico prefabbricato: tondeggiante, massiccio, con un’unica apertura stranamente incorniciata. Della stessa epoca – circa 3000 a.C. – si è rinvenuto un cocchio coi cavalli e l’auriga, e inoltre una coppia di lottatori, tutti di elegante e impeccabile fattura. Sappiamo che i sumeri erano abilissimi artigiani. Perché modellarono quel “bunker” grossolano, mentre da altri scavi di Babilonia o di Uruk sono usciti oggetti molto più elaborati e articolati? Parecchio tempo fa nella città di Nippur – 150 chilometri a sud di Bagdad – è stata rinvenuta un’intera biblioteca sumerica di circa 60.000 tavolette d’argilla coperte di scrittura. Incisa su una tavoletta a sei colonne, possediamo qui la più antica descrizione del diluvio. Cinque città prediluviali sono nominate nelle tavolette: Eridu, Badtibira, Larak, Sitpar e Shuruppak. Due di queste città non sono state ancora rinvenute. Su queste tavole, che sono le più antiche decifrate finora, il Noè dei sumeri ha nome Ziusudra: pare vivesse nella città di Shuruppak ed ivi costruisse la sua arca. Oggi dunque noi disponiamo di una descrizione del diluvio più antica di quella che avevamo finora nel poema di Gilgamesh. E nessuno sa se qualche nuovo reperto non stia per portarci una descrizione ancora precedente. Gli uomini delle antiche culture sembravano essere come ossessionati dall’idea della immortalità o della rinascita. Servi e schiavi scendevano a quanto pare di loro spontanea volontà nella tomba accanto ai loro padroni: nel sepolcro di Shub-At giacevano in ordine perfetto l’uno accanto all’altro non meno di settanta scheletri. Senza mostrare il minimo segno di violenza, seduti o sdraiati attendevano nelle loro splendide vesti la morte, che doveva sopraggiungere veloce e senza dolore, grazie forse a un potente veleno. Dovevano certo esser profondamente convinti che li attendeva una nuova vita accanto ai loro signori nell’aldilà. Ma chi fece nascere nelle teste di questi popoli pagani l’idea della rinascita? Non meno sconcertante è il pantheon degli egiziani. Anche i più antichi testi dei popoli del Nilo conoscono esseri potenti che percorrono il firmamento in celesti imbarcazioni. Un testo cuneiforme che reca un inno al dio solare Ra dice:

“Tu ti aggiri fra le stelle e la Luna, tu conduci la nave di Aton in Cielo e sulla Terra come le stelle che girano instancabili e gli astri presso il polo nord che non tramontano mai.”

Ed ecco un’iscrizione rinvenuta in una piramide:

“Tu sei colui che è alla testa della nave del Sole già da milioni di anni.”

Anche se gli antichi egiziani furono dei matematici di straordinaria abilità, resta sempre una cosa strana che a proposito di stelle e navi solari essi parlino di milioni di anni. Che dice il Mahabharata?

“Il tempo è il seme dell’Universo. “

A Memfi il dio arcaico Ptah consegnò al re due modelli per la celebrazione degli anniversari del suo regno, con l’ingiunzione di celebrare questi giubilei per sei volte centomila anni. È forse necessario ricordare che l’antichissimo iddio Ptah, prima di consegnare al re i modelli, gli era comparso davanti in uno splendente carro celeste di electron e aton, e con esso era poi sparito all’orizzonte? A Edfu si trovano ancor oggi su porte e templi raffigurazioni del sole alato, o di un falco in volo, che porta gli ideogrammi dell’eternità e della vita eterna. In nessun altro luogo della Terra, per quanto sappiamo finora, esistono tante raffigurazioni di simboli divini alati quante se ne trovano in Egitto. Ogni turista conosce l’isola di Elefantina, col famoso nilometro di Assuan. L’isola è chiamata Elefantina già nelle scritture più antiche, perché ricorda la forma di un elefante. Ed è vero: l’isola ha l’aspetto di un elefante. Ma come lo sapevano gli antichi egiziani, dato che questa forma si può riconoscere solo a grande altezza, da bordo di un aereo? Non vi sono nei dintorni colline che possano offrire un panorama dell’isola capace di suggerire quel paragone. Un’iscrizione scoperta qualche tempo fa in un edificio di Edfu ci informa che questo edificio era di origine soprannaturale: la sua pianta era stata disegnata da un essere divinizzato, Imhopte. Questo Imhopte è una personalità misteriosa di antico saggio: l’Einstein del suo tempo. Era sacerdote, scrittore, medico, architetto e scienziato nella stessa persona. Agli uomini dell’antico mondo di Imhopte gli archeologi concedono tutt’al più come strumenti per la lavorazione della pietra cunei di legno e utensili di rame: e né l’uno né l’altro sono adatti a segare blocchi di granito. Ma il saggio Imhopte costruisce al suo re Zoser la piramide a scalini di Saqqara. Questa costruzione alta 60 metri presenta una maestria tecnica che più tardi poté solo imperfettamente essere imitata: è circondata da un muro alto 10 metri e lungo 1.600, ed ebbe il nome di “Casa dell’eternità” dallo stesso Imhopte, che vi si fece seppellire, perché gli dei lo potessero svegliare al loro ritorno. Noi sappiamo che tutte le piramidi sono orientate secondo coordinate astronomiche. Non ci sembra questa una cosa un po’ bizzarra, se pensiamo che di una antica astronomia egiziana quasi nulla ci è noto? Sirio era una delle poche stelle cui gli egiziani dedicavano il loro interesse. Ma proprio questo interesse può apparire piuttosto comico, poiché Sirio da Memfi si può appena intravedere, all’inizio della piena del Nilo, poco sopra l’orizzonte nell’incerta luce dell’alba. E per colmare la misura della nostra perplessità, in Egitto troviamo un calendario di grande precisione ben 4.221 anni prima della nostra era! Questo calendario è impostato in base alla levata eliacale di Sirio (primo Tout = 19 luglio) e segna cicli annuali di oltre 32.000 anni. D’accordo, agli antichi astronomi non mancava certamente il tempo per osservare il Sole, la Luna, le stelle di anno in anno, per cui non fu loro difficile concludere che dopo circa 365 giorni tutte le stelle hanno ripreso la loro posizione iniziale nella volta celeste. Ma non è completamente assurdo impostare il primo calendario proprio sui movimenti di Sirio, quando era tanto più facile osservare il Sole e la Luna, che permettevano anche di giungere a risultati più precisi? Presumibilmente il calendario di Sirio era in fondo un’immagine fittizia, un calcolo delle probabilità, perché non poteva mai prevedere il sorgere della stella: la coincidenza della piena del Nilo con la levata mattutina di Sirio all’orizzonte era un puro caso. Non ogni anno vi era una piena del Nilo, e non tutte le piene del Nilo avvenivano nello stesso giorno. Perché dunque un calendario siriano? Si cela anche qui un’antica tradizione? Esisteva forse uno scritto, o una promessa, che la casta sacerdotale custodiva gelosamente? In una tomba, probabilmente la tomba del re Udimus, è stata rinvenuta una collana d’oro e lì accanto lo scheletro di un animale assolutamente sconosciuto. Da dove viene l’animale? Come si spiega che gli egiziani già all’inizio della prima dinastia possiedono un sistema decimale? Come è sorta in tempi così antichi una civiltà così sviluppata? E da dove provengono, all’inizio stesso della cultura egiziana, gli oggetti di bronzo e di rame? Chi ha dato loro quelle incredibili cognizioni di matematica c una scrittura già bell’e pronta? Prima di passare a considerare alcuni monumenti architettonici che presentano innumerevoli punti interrogativi, diamo un breve sguardo a qualche altra antica opera letteraria. Da dove trassero i narratori delle Mille e una notte la loro straordinaria ricchezza di trovate fantastiche? Come arrivarono a immaginare una lampada da cui, a un comando, uno spirito parla? Quale audace fantasia ha inventato il “Sesamo, apriti” della caverna in cui si nascondevano i quaranta ladroni di Ali Babà? Oggi certo queste idee non ci sbalordiscono più, da quando il televisore, se si preme semplicemente un bottone, fa apparire ai nostri occhi immagini che parlano. E da quando in tutti i magazzini un po’ importanti le porte si aprono e si chiudono per azione delle cellule fotoelettriche, anche il “Sesamo, apriti!” non è più un enigma. Ad ogni modo l’immaginazione degli antichi narratori dev’essere stata così straordinaria che i nostri autori di romanzi di fantascienza ci danno al confronto solo lavoretti da principianti. A meno che gli antichi narratori non avessero a loro disposizione, come spunto iniziale per accendere la loro fantasia, qualcosa di già noto, di già visto e vissuto! Nel mondo di miti e leggende delle culture inafferrabili, che non ci offrono ancora punti di riferimento e dati concreti, il terreno comincia a vacillare del tutto e la situazione è ancora più sconcertante.Le antiche tradizioni dell’Islanda e della Norvegia conoscono naturalmente anch’esse degli “dei” che si muovono nel cielo. La dea Frigg ha un’ancella, Gna, e la spedisce in diversi mondi con un cavallo magico, di nome “Scalpitante”, il quale s’innalza nell’aria al di sopra delle terre e dei mari. Una volta, dice la leggenda, Gna ha anche incontrato nell’aria alcuni Wanen stranieri. Nel Canto di Alwis la Terra, il Sole, la Luna e il cosmo sono indicati con svariati appellativi, e precisamente ricevono di volta in volta un nome diverso a seconda che siano visti dagli uomini, dagli “dei”, dai giganti o dagli Asa. Ma come, in nome del cielo, si poté giungere in quei remotissimi tempi a concezioni e denominazioni diverse della stessa cosa, dato che l’orizzonte era così limitato? Anche se il dotto Sturluson fa risalire le saghe e i canti nordici e alto-tedeschi solo a circa il 1200 d.C., essi sono certamente vecchi di alcune migliaia di anni. Spesso nelle trascrizioni di questi canti il mondo è simboleggiato da un disco, o una sfera – cosa abbastanza singolare, – e Thor, il dio supremo, è sempre presentato con un martello, il suo “stritolatore”. Il professor Kuhn sostiene che la parola Hammer (martello) significa pietra e proviene dall’età neolitica, e solo più tardi è stata usata per i martelli di bronzo o di ferro. Perciò Thor e il simbolo del martello che lo accompagna devono essere antichissimi, e probabilmente risalgono all’età della pietra. Del resto la parola Thor è il sanscrito Tanayitnu dei Veda indiani: si potrebbe, come senso, tradurlo pressappoco “il tonante”. Il nordico Thor, il dio degli dei, è il signore dei Wanen germanici, che rendono malsicuri gli spazi aerei. In una discussione sugli aspetti del tutto nuovi che noi prospettiamo nella ricerca archeologica, ci si potrebbe obiettare: non è possibile che tutti i numerosissimi cenni ad apparizioni celesti offertici dalla tradizione possano essere interpretati come prove di un preistorico viaggio spaziale. Non è questo infatti che noi vogliamo fare: noi ci limitiamo ad indicare certi passi di antichissimi testi che non possono inserirsi nello schema concettuale finora da noi applicato. Noi insistiamo coi nostri interrogativi su quei punti, ovviamente spiacevoli, in cui né gli scrittori né i traduttori né i copisti possono aver avuto anche una lontana idea delle scienze e dei processi tecnici risultanti. Noi saremmo pronti a considerare sbagliata la traduzione e poco precisa la trascrizione,- se non vedessimo poi, nello stesso tempo, accettare queste stesse tradizioni falsate e infiorate di fronzoli fantasiosi come autentiche verità, non appena si vanno a inserire nel quadro di qualche religione. Non è degno di un ricercatore serio negare un fatto quando turba il suo schema concettuale e riconoscerlo poi quando viene a confortare le sue teorie. Con quale forza e con quale efficacia si imporrebbero le nostre tesi, se potessimo disporre di nuove traduzioni, fatte con “occhi spaziali”! Sulle sponde del Mar Morto – tanto per continuare ostinatamente nell’esposizione del nostro punto di vista – si sono recentemente rinvenuti rotoli scritti con frammenti di testi apocalittici e liturgici. Nell’apocrifo di Abramo, e anche in quello di Mosè, si parla di un carro celeste, fornito di ruote, che sputa fuoco, mentre questo motivo manca nel Libro di Enoch, etiopico o slavo. “Dietro quegli esseri io vidi un carro che aveva ruote di fuoco, e ogni ruota era tutt’attorno piena di occhi, e sulle ruote v’era un trono, e questo era coperto da fuoco che scorreva tutt’attorno.” (Apocrifo di Abramo 18, 11-12). Secondo l’interpretazione del professor Scholem, il mondo di troni e carri dei mistici ebrei corrisponde a quello dei mistici ellenistici e protocristiani che descrivono il pleroma (pienezza di luce). È certamente un’interpretazione rispettabile: ma si può ritenerla scientificamente dimostrata? E non dobbiamo piuttosto chiederci se qualcuno dei nostri antichi progenitori non abbia realmente visto i carri di fuoco che troviamo continuamente descritti? Nei rotoli di Qumran è stata usata spesso una scrittura segreta: fra i documenti della quarta caverna vi è un’opera astrologica in cui si alternano persino diversi tipi di scrittura. Un saggio astronomico porta il titolo: “Parole del veggente, che egli ha rivolto a tutti i figli dell’aurora. Esiste dunque qualche argomento così assoluto e convincente contro la nostra ipotesi che negli antichi testi siano ricordati e descritti veri e propri carri di fuoco? Non certo la banale quanto vaga affermazione che nell’antichità non potevano esistere carri di fuoco! Una simile risposta sarebbe indegna di coloro che noi vorremmo costringere con le nostre domande a prospettarsi nuove alternative. Del resto, non è passato molto tempo da quando è stato affermato da persona competente che non potevano cadere pietre (= meteore) dal cielo perché in cielo non c’erano pietre… Ancora nel XIX secolo alcuni matematici avevano calcolato – e il calcolo per quei tempi era convincente – che un treno non avrebbe mai potuto viaggiare a una velocità superiore ai 34 chilometri orari perché altrimenti l’aria sarebbe stata risucchiata fuori dalle vetture, e i passeggeri sarebbero morti soffocati… E meno di cento anni fa fu “dimostrato” come nessun oggetto più pesante dell’aria avrebbe mai potuto volare… Nella recensione di un noto giornale, il libro di Walter Sullivan Segnali dallo Spazio è stato collocato fra le opere di fantascienza. Lo stesso giornale afferma che senza dubbio anche nel più lontano futuro sarà impossibile raggiungere, per esempio, Epsilon-Eridani o Tau-Ceti, poiché anche con l’effetto della dilatazione del tempo o con l’ibernazione degli astronauti a bassissime temperature non sarà mai possibile superare la barriera di lontananze incalcolabili. Quale fortuna che nel passato ci siano sempre stati dei visionari abbastanza audaci, e abbastanza sordi alla critica contemporanea! Senza di essi oggi non esisterebbe la rete ferroviaria mondiale, i cui treni viaggiano alla velocità di 200 e più chilometri orari (si ricordi: oltre i 34 chilometri orari i passeggeri muoiono soffocati); senza di essi non ci sarebbero gli aerei a reazione, perché senz’altro sarebbero condannati a precipitare (si ricordi: gli oggetti che sono più pesanti dell’aria non possono volare); e infine non ci sarebbero i razzi lunari (si ricordi: l’uomo non può lasciare il suo pianeta). Quante cose mancherebbero senza i sullodati visionari! Una parte dei ricercatori vorrebbe attenersi ai cosiddetti dati concreti. Ma dimentica spesso e volentieri che ciò che oggi è un dato concreto ieri era forse il sogno utopistico di un visionario. Una parte non indifferente delle grandi scoperte che hanno fatto epoca, e che il nostro tempo considera solide realtà, sono dovute a casi fortunati, e non a una serie di ricerche coerenti. E alcune si debbono proprio a quei “caparbi visionari” che con le loro audaci speculazioni hanno spezzato le pastoie dei pregiudizi. Ma questo è sicuro: ci stiamo avvicinando rapidamente a insospettate possibilità future. Heinrich Schliemann non considerò i libri di Omero come semplici favole e leggende, e così scoprì Troia. Sappiamo ancora troppo poco del nostro passato per poterne dare un giudizio definitivo. Nuovi rinvenimenti possono svelare inauditi misteri, la decifrazione di antichissime notizie può capovolgere intere costruzioni di dati concreti. E sappiamo bene che, degli antichi testi, sono più quelli distrutti che quelli a noi rimasti. Nel Sudamerica doveva esistere un’opera scritta che racchiudeva tutto il sapere dell’antichità e pare sia stata distrutta dal sessantatreesimo sovrano inca,Pachacuti IV. Nella biblioteca di Alessandria i 400.000 volumi del dotto Tolomeo II Filadelfo dovevano raccogliere tutte le tradizioni dell’umanità: la biblioteca fu in parte distrutta dai romani, il resto, parecchi secoli dopo, fu dato alle fiamme per ordine del califfo Omar. È inconcepibile che preziosissimi, insostituibili manoscritti siano serviti ad accendere le stufe delle pubbliche terme di Alessandria. E che avvenne della biblioteca del tempio di Gerusalemme? Che avvenne di quella di Pergamo, che doveva ospitare 200.000 volumi? Quali tesori e quali misteri furono sepolti insieme ai libri di storia, di astronomia e di filosofia distrutti per ragioni politiche dall’imperatore cinese Chi-Huang nell’anno 214 a.C.? Quanti testi fece distruggere Paolo convertito ad Efeso? Per non pensare, poi, quale immensa ricchezza di opere in tutti i campi del sapere andò perduta per noi grazie al fanatismo religioso. Quante migliaia di testi irreparabilmente distrutti dal cieco zelo di monaci e missionari nell’America centrale e meridionale! Questo avveniva centinaia e migliaia di anni fa. È forse per questo l’umanità divenuta più saggia? Ancora pochi decenni fa Hitler faceva bruciare dei libri sulle pubbliche piazze e solo nell’anno 1966 avvenne lo stesso in Cina, durante la rivoluzione delle guardie rosse di Mao. Grazie al cielo, oggi i libri non esistono, come nei tempi passati, in un solo esemplare. I testi e i frammenti che ci sono rimasti ci hanno tramandato molte notizie del nostro remotissimo passato. In ogni tempo i saggi di ogni popolo sapevano che il futuro avrebbe portato guerre e rivoluzioni, sangue e fuoco. Hanno forse questi saggi negli edifici colossali della loro epoca nascosto misteri e tradizioni al furore della plebaglia, o li hanno conservati in luogo sicuro per salvarli da possibili distruzioni? E nelle piramidi, nei templi, nelle statue, hanno forse voluto celare, o meglio “cifrare”, messaggi o notizie, perché potessero sopravvivere alle tempeste del tempo? è un’idea da esaminare, poiché anche alcuni nostri previdenti contemporanei hanno fatto la stessa cosa, in vista del futuro. Nell’anno 1965 gli americani hanno sepolto nel suolo di New York due “capsule del tempo”, che sono fatte in modo da poter resistere fino all’anno 6965 a tutto ciò che – anche con la più audace fantasia – questa Terra può offrire di corrosivo e distruttore. Queste capsule contengono notizie che noi vogliamo trasmettere ai posteri, affinché un giorno quelli che cercheranno di diradare le tenebre del loro più remoto passato sappiano come hanno vissuto i loro antenati. Le capsule sono fatte di un metallo più duro dell’acciaio e possono resistere incolumi anche a una esplosione atomica. Oltre alle “notizie del giorno”, queste capsule contengono fotografie di città, navi, automobili, aeroplani e missili; ospitano campioni di metalli e sostanze plastiche, di stoffe, fibre e tessuti; conservano ai posteri oggetti d’uso quotidiano come monete, utensili e articoli da toletta; libri di matematica, di medicina, fisica, biologia e astronautica sono fissati su microfilm. E per fare il servizio completo per un lontano, sconosciuto futuro, nelle capsule c’è un grande cifrario, con l’aiuto del quale le cose scritte e disegnate potranno esser tradotte nelle lingue future. L’idea di far dono ai posteri di quelle due capsule così riccamente rifornite è stata di un gruppo di ingegneri della Westinghouse-Electric: John Harrington ha ideato l’ingegnoso sistema di decifrazione per i nostri sconosciuti discendenti. Poveri pazzi? Visionari? A noi è sembrata veramente un’idea felice e tranquillizzante: esistono dunque gli uomini che pensano a chi vivrà fra 5.000 anni. Gli archeologi di un lontano futuro non saranno in una posizione più facile della nostra. Dopo un’esplosione atomica tutte le biblioteche del mondo non serviranno più a niente e tutte le conquiste di cui andiamo così orgogliosi non varranno più un soldo, perché saranno sparite, saranno distrutte, saranno atomizzate. Per mandare a buon fine il gesto e la fantasia degli uomini di New York, bisogna inoltre che nessuna esplosione atomica arrivi a scardinare la Terra: lo spostamento dell’asse terrestre, anche di pochi gradi, provocherebbe inondazioni di inaudita violenza, che nulla varrebbe ad arginare, e che in ogni caso divorerebbero qualsiasi parola scritta. Chi sarà tanto arrogante da sostenere che un’idea come quella dei lungimiranti ingegneri di New York non sarebbe potuta venire anche agli antichi saggi? Senza dubbio, gli strateghi di una guerra atomica e termonucleare non punteranno le loro terribili armi contro villaggi di zulu o di innocui eschimesi: le punteranno contro i centri della nostra civiltà. E quindi il caos radioattivo travolgerà i popoli più progrediti, più altamente evoluti. Sopravviveranno i popoli sottosviluppati, i più selvaggi e primitivi, i più lontani dai centri civili, i quali naturalmente non potranno tramandare una cultura di cui non erano ancora partecipi, né potranno darne almeno notizia. Persino i saggi, o i sognatori, che si sforzassero di salvare una biblioteca sotterranea non otterrebbero nulla di utile per il futuro: le biblioteche “normali” saranno senz’altro distrutte e i primitivi sopravvissuti non sapranno nulla di biblioteche nascoste o segrete. Intere regioni della superficie terrestre saranno divenute deserti di fuoco, poiché a secoli di emanazioni radioattive nessuna forma di vita vegetale potrà sopravvivere. I superstiti subiranno probabilmente delle mutazioni, e dopo duemila anni nulla più resterà delle città bombardate. La natura divorerà le rovine con le sue forze indomabili, il ferro e l’acciaio si sbricioleranno in ruggine e polvere. E tutto potrà ricominciare di nuovo. L’uomo può tentare la sua avventura una seconda, una terza volta: probabilmente arriverà sempre troppo tardi a svelare il mistero degli antichi testi e delle antiche tradizioni. E 5.000 anni dopo la catastrofe gli archeologi potranno affermare che l’uomo del XX secolo non conosceva ancora il ferro, perché, com’è ben comprensibile, anche con le più diligenti ricerche non ne troveranno traccia. Lungo le frontiere russe troveranno chilometri e chilometri di barriere anticarro di cemento, e affermeranno che si tratta senza dubbio di linee astronomiche. E se troveranno cassette con nastri magnetici, non ci capiranno nulla: non sapranno neppure distinguere i nastri incisi da quelli non incisi. E forse quei nastri contengono la soluzione di tanti enigmi! Se scopriranno testi che parlano di gigantesche città, con abitazioni alte centinaia di metri, dichiareranno che non è possibile prestarci fede, poiché città simili non possono essere esistite. Le gallerie della metropolitana di Londra saranno considerate una bizzarria geometrica, o un sistema di canalizzazione straordinariamente ben progettato. Intanto continueranno ad affiorare racconti di giganteschi uccelli, con cui gli uomini volavano da un continente all’altro, e di strane navi che vomitavano fuoco e che sparivano nel cielo. Ma tutto questo, ancora una volta, sarà relegato nella “mitologia”, perché non possono esistere uccelli così grandi né mostri celesti che vomitano fuoco. I traduttori dell’anno 7000 non hanno una vita facile: le notizie ch’essi vanno decifrando su antichi frammenti intorno a una guerra mondiale nel XX secolo non sono assolutamente credibili. E se poi gli capitassero in mano i discorsi di Marx o di Lenin, potrebbero finalmente – quale felice combinazione! – farne due Grandi Sacerdoti al centro di una religione di questo incomprensibile periodo.Si potranno fare innumerevoli congetture, se resterà qualcosa che possa offrire un punto di partenza. Cinquemila anni sono un lungo periodo. Se la pietra squadrata arriva a resistere per 5.000 anni, è un puro capriccio della natura, la quale non ha altrettanto riguardo neppure per le più robuste rotaie di ferro. Nel cortile di un tempio a Delhi, come abbiamo già accennato, si trova un pilastro di ferro, composto di diverse parti saldate fra loro, che da oltre 4.000 anni è esposto alle intemperie senza che vi sia comparsa alcuna traccia di ruggine; è cioè completamente privo di zolfo e di fosforo. Ci troviamo davanti a una lega di ferro sconosciuta, che risale alla più remota antichità. Chi sa se il pilastro è stato fatto da un gruppo di lungimiranti ingegneri, che forse non avevano i mezzi per costruire un edificio colossale, ma volevano egualmente lasciare ai posteri un monumento visibile della loro cultura, che sopravvivesse al passare dei secoli? È una storia incresciosa: nelle culture superiori del passato troviamo delle opere architettoniche che oggi, coi più moderni mezzi tecnici, non riusciremmo ad imitare. Questi enormi blocchi di pietra sono là: nessuna dotta argomentazione ne può cancellare l’esistenza. Ma poiché non può esistere ciò che non deve esistere, si cercano spasmodicamente spiegazioni “razionali”. Ma leviamoci i paraocchi e cerchiamo insieme…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *