


In questa comparazione tra il mito antropogonico paleobabilonese, rappresentanto dall’Enûma ilû awîlum, e quello ellenico, costruito dai due testi di Hēsíodos, ci troviamo di fronte a due personalità «ribelli», o comunque associate a schieramenti che si oppongono all’ordine divino: Weʾe e Promētheús. Una comparazione tra i due personaggi è destinata a rimanere sul piano della semplice analogia. Il terreno su cui ci stiamo avventurando è irrimediabilmente fragile: se Promētheús è un personaggio concreto, dalle molte e interessanti sfaccettature, la figura di Weʾe rimane indefinita, priva di spessore. Il suo dossier è piuttosto scarno e non offre elementi su ci lavorare: ma quei pochi trovano regolari agganci con il mito prometeico. Entrambi i personaggi sono caratterizzati in primis dalla loro intelligenza. Weʾe era definito tout-court come «il dio che ha l’intelligenza» [ilu ša išu ṭêma] (Enûma ilû awîlum [I: 223]); Promētheús viene presentato tramite le sue qualità di astuzia e scaltrezza. Si tratta però di due intelligenze diverse: in accadico, ṭêmu indica l’attività del pensiero in senso generale, e dunque la capacità di comprendere, pensare, esprimere giudizi e pigliare decisioni. L’«intelligenza» di Weʾe è la facoltà razionale, facoltà che gli uomini condividono con gli dèi. Nel concetto di ṭêmu sembrano anche comprese la coscienza individuale e la personalità. Certamente, è dal ṭêmu di Weʾe che deriva – anche etimologicamente – l’eṭêmmu posseduto dagli esseri umani, cioè la loro parte divina, la continuità spirituale, l’anima indeperibile ed eterna. L’intelligenza di Promētheús è assai più specializzata. Hēsíodos lo definisce aiolómētis «scaltro» [511], poikilóboulos «dalle molte astuzie» [521], aŋkylómētis «dai torti pensieri» [546]. E non a torto: Promētheús è ingegnoso, creativo, astuto, dispettoso. Egli possiede al massimo grado la mêtis, l’intelligenza astuta. È in grado di congegnare piani contorti e di portarli a compimento. E sebbene Zeús si sia affidato al suo consiglio in questioni di primaria importanza, come nel corso della titanomachia, Promētheús rimane un elemento imprevedibile, a volte sleale, spesso ribelle. Il suo amore per il genere umano, si sviluppa soltanto nei testi più tardi, nelle tragedie di Aischýlos; in Hēsíodos, Promētheús non sembra affatto animato dalla volontà di aiutare gli uomini, ma solo da quella di prendersi gioco di Zeús. Non è semplice arrivare a una conclusione. La figura di Promētheús è stato certamente rielaborata nel corso del tempo, ma anche una rigida ermeneutica esiodea difficilmente ci consegnerà una fedele rappresentazione del personaggio in epoca arcaica. Il mito di Promētheús rivela elementi di diversa origine e provenienza, che non è possibile ricondurre a un’unica fonte. Hēsíodos lascia affiorare soltanto la punta dell’iceberg. Entrambi definiti per via delle loro capacità intellettive, sia Promētheús che Weʾe contribuiscono alla creazione degli esseri umani e, in particolar modo, sono responsabili della presenza di quel quid di natura divina presente nell’uomo. Weʾe lo è maniera passiva: egli viene sacrificato dagli Anunnaki affinché la sua carne e il suo sangue, mescolati all’argilla, forniscano all’uomo l’eṭemmu. Al contrario, Promētheús agisce attivamente, come demiurgo, creando gli esseri umani contro il volere degli dèi. La partecipazione dell’uomo alla natura divina, in Grecia, è vista innanzitutto come somiglianza fisica. Nel dialogo di Loukianós, Promētheús si difende dall’accusa di aver voluto fabbricare gli uomini a immagine degli dèi, immagine che si riflette inevitabilmente sia sul piano della facoltà razionale, sia su quello etico. In diverse figurazioni antiche, Athēnâ è rappresentata accanto a Promētheús, nell’atto di toccare la testa dell’uomo appena creato, per infodergli le capacità razionali. Il motivo, escogitato da Ovidius, della terra impastata con l’acqua piovuta dal cielo, appare di troppo, nel mondo ellenico. I Greci sono fin troppo concreti per perdersi dietro le speculazioni metafisiche di stampo semitico: l’intelligenza che avvicina gli uomini agli dèi è definita piuttosto dalla conoscenza, che è innanzitutto conoscenza pratica, téchnē. È attraverso l’istruzione che Promētheús libera gli uomini dalla bestialità e li consegna all’esistenza come individui civili. Il motivo è ben sottilineato da Aischýlos, il quale mette in bocca a Promētheús queste parole:
Il testo si prolunga elencando tutte le tecniche, le arti e le conoscenze che Promētheús ha introdotto presso gli uomini, tra cui le corrette pratiche di sacrificio e, in ultimo, il dono inestimabile del fuoco, rubato agli dèi ed elargito al genere umano. «Sappilo in breve», è l’amara conclusione del titán, «tutto ciò che gli uomini conoscono, viene da Promētheús». Una volta individuata un’omologia tra due schemi mitologici e messi in parallelo i punti fondamentali dell’uno e dell’altro scenario, così da rivelare la presenza una medesima struttura di base, si può scoprire che le differenze sono altrettanto interessanti delle somiglianze. La forma in cui un medesimo mitema affiora in luoghi e tempi diversi ci insegna sempre qualcosa sui contesti culturali che l’hanno rielaborato e interpretato. Il sacrificio di Weʾe, che nel mito mesopotamico è propedeutico alla creazione dell’uomo come essere dotato di anima e ragione, in quello greco si configura come punizione per aver conferito agli uomini conoscenze e tecniche possedute dagli dèi, in particolare per aver restituito loro l’uso del fuoco. Per tali azioni, Promētheús, come sappiamo, verrà incatenato ai monti del Caucaso.
(Fonte :Bifrost.it)